Il volto povero del Giappone. “Tokyo – Stazione di Ueno” di Yu Miri
Ci si aspetta che le fatiche di una vita passata a lavorare ripaghino in vecchiaia. A volte, però, non si è preparati a ciò che rimane. Per evitare di soffrire si finisce per diventare invisibili. Ma sfuggire alla sofferenza è una mera illusione.
«Un tempo avevano una famiglia, e anche un lavoro. Non c’è nessuno che fin dall’inizio abbia vissuto in una casupola fatta di cartoni e teli azzurri, e nessuno è diventato un senzatetto per scelta. Se sono finiti in questa condizione, ci dev’essere stata qualche circostanza che ce li ha portati.»
La stazione di Ueno, a Tokyo, è il tradizionale punto di snodo per i viaggi verso il nord del Giappone. Centro nevralgico dal quale si accede al parco pubblico più famoso di tutta l’isola, il parco di Ueno: una ridente distesa verde che ospita circa 9.000 arbusti, molti dei quali sono i tradizionali alberi di ciliegio che offrono il meraviglioso spettacolo della loro fioritura.
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Tokyo – Stazione di Ueno (21lettere, maggio 2021) è il romanzo vincitore del prestigiosissimo premio statunitense per la letteratura straniera: Nationale Book Award, ed è il racconto di come la perfezione incantevole dei ciliegi in fiore del parco di Ueno strida con i suoi (in)visibili abitanti.
Una popolazione di senzatetto che vive stabilmente tra i confini del parco e le aree boschive, stipati dentro tipici rifugi fatti di cartone e ricoperti da teloni blu, e che la polizia è legittimata a cacciare nei giorni in cui sono previste visite imperiali o in altre occasioni speciali, come le Olimpiadi. La cacciata dalla montagna la chiamano, e i senzatetto devono sgombrare il parco per il tempo necessario a salvare le apparenze.
Emarginati che vivono alla giornata, rovistano nella spazzatura, sopravvivendo grazie agli avanzi lasciati in giro da chi vive nell’abbondanza.
Le storie sfuggenti di chi attraversa il parco si ingarbugliano, per il tempo del loro passaggio, con quelle permanenti degli emarginati e, nel romanzo, i confini di spazio e tempo si fondono e si confondono.
Kazu, triste protagonista di una vicenda che racconta un fenomeno pressoché universale, è un fantasma. Invisibile sia da morto sia da vivo, incapace di lasciare il parco, arreso all’accettazione passiva di una vita senza dignità.
«Pensavo che una volta morto avrei compreso qualcosa. Che in quell’istante avrei afferrato il significato del vivere e quello del morire. […] E invece, quando me ne sono reso conto, ero ritornato in questo parco. Senza arrivare da nessuna parte, senza comprendere nulla, lasciando me stesso in balia di infinite domande.»
La vita del vecchio Kazu si snoda nel corso del romanzo, si intreccia a quelle dei suoi “compagni di sventura” e si contrappone a quella del suo paese. Mentre lui arranca tra fatica, miseria, lutti e tradizioni da rispettare, il Giappone, lanciato come uno dei treni in corsa che attraversa la stazione di Ueno, cerca con ogni mezzo di prosperare e di salvaguardare quell’apparente facciata di perfezione e rigoglio necessari a garantire la presenza delle Olimpiadi, nel 1964 come nel 2020.
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La povertà, la disuguaglianza, l’emarginazione e il sempre crescente divario sociale sono il reale tema centrale del libro di Yu Miri. Una denuncia senza mezzi termini del mito del progresso giapponese che si fonda quasi esclusivamente sul capitalismo sfrenato e sulla salvaguardia delle apparenze a discapito delle esistenze minori, ovvero quella grossa fetta della popolazione che, a causa di eventi come le Olimpiadi – che l’autrice ritiene uno dei motivi dell’aumento crescente del divario tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri – vive al di sotto della soglia di povertà e per cui, quasi nessuno, si prede la briga di farsi portavoce.
«Un tempo avevano una famiglia, e anche un lavoro. Non c’è nessuno che fin dall’inizio abbia vissuto in una casupola fatta di cartoni e teli azzurri, e nessuno è diventato un senzatetto per scelta. Se sono finiti in questa condizione, ci dev’essere stata qualche circostanza che ce li ha portati.»
Per la prima foto, copyright: Trevor Paxton su Unsplash.
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