Il viaggio come antidepressivo naturale. “L’iguana era a pezzi” di Giulio Pedani
Puntata n. 96 della rubrica La bellezza nascosta
«Sul piccolo treno sferragliante e instabile che mi porta verso il confine francese c’è Giorgio, uno di quei matti inoffensivi dall’energia debordante. Fa domande a getto continuo a chiunque passi. Lo sorveglia una donnina appassita, deviata lei stessa dal peso di un essere alienato e incontenibile. Giorgio blocca i passeggeri e chiede cose. Perché il finestrino è chiuso? Perché è così freddo? Perché il sedile è sporco? Perché hai tre borse? Giorgio ferma il controllore e gli inservienti simulando i gesti di un orango, usando le spalliere dei sedili, le maniglie mobili delle porte, gli abiti appesi come fossero la più riuscita approssimazione dei rami di una qualunque foresta di Sumatra. Ripete tutto quello che sente dire dal controllore, dagli inservienti, dai messaggi robotici degli altoparlanti.»
Il viaggio è senza ombra di dubbio un movimento che può essere salvifico, uno spostamento interno ed esterno che ci può aiutare a debellare qualche paura, a consumare alcune rabbie, a far venire fuori una sorta di infelicità, farla venir fuori fino a scovarla, fino a guardarla, fino a scacciarla.
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Il viaggio fisico, il viaggio fatto di piedi e gambe in movimento, è un antidepressivo naturale, è come un sollievo che ti accarezza i muscoli e ti solletica i polmoni, è un’immagine che passa davanti agli occhi a velocità moderata e cambia continuamente, si evolve, ci dona l’illusione che l’instabilità possa essere qualcosa di eternamente meraviglioso. Si decide di partire per trovare qualcosa di sé che un tempo abbiamo incontrato, si decide di prendere lo zaino e metterlo in spalla e camminare, camminare fino a che le piante dei piedi non bruciano, per conoscere ciò che non siamo mai riusciti a scovare veramente di noi stessi, il viaggio è quella parte di noi che non smetteremmo mai di cercare per tutta la vita.
Giulio Pedani è nato a Siena nel 1981, L’iguana era a pezzi è stato pubblicato dalla casa editrice Effequ.
C’è un amico in coma e un viaggio a piedi che vale mille chilometri. C’è la Via Francigena dove si succedono ventisei giorni di incontri, scontri, riflessioni. E ripiombano, come non fossero mai andati via, venticinque anni di vita, di situazioni inverosimili, riflessioni e amicizia. Mille chilometri con al centro la storia di tre amici. Fino ad arrivare alla mèta, e a un imprevisto epilogo.
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Giulio Pedani ci consegna un romanzo sul senso della vita, affronta una tematica bistrattata nel mondo della letteratura ma lo fa da un’angolazione differente; una storia in cui i personaggi sembrano in eterno movimento e i paesaggi e le strade appaiono statici, appaiono come fotografie, come cartoline, di quelle che si comprano, da mandare a casa durante un viaggio. Uno spaccato di vita che resta fermo nel tempo, si dilata e viene minuziosamente sviscerato; Cile, colui che narra in prima persona, si incammina su una strada sì terrena, ma anche sensoriale, una strada che è anche fatta di ricordi, di memoria viva, che pulsa.
«Ubriachi a notte fonda in una pace di cristallo girammo a caso per i camminamenti dei canali nell’aria ancora calda, sempre la birra in mano per non scendere di livello, il vialetto di Heckmannufer vicino alle chiatte addormentate fino a vedere lo Spree, Spree che era ed è l’anagramma di Speer, l’architetto nazista, e indietro per il parco di Schlesischer che sembrava di stare nella Foresta Nera, mille altre come questa nella grande Berlino rinascente, la più malconcia e la più giovane di tutta Europa, i palazzi scalcinati e silenziosi vergati di strane scritte e grafiti irreali, così lontani, qualche finestra illuminata ma senza strafare. Incrociammo uno storpio che raccoglieva plastiche e vetro, pagato 5 centesimi a pezzo da un’associazione comunale, e avemmo l’impressione di averlo già visto al pomeriggio.»
Cile cerca di guadagnare tempo prima di arrivare dal suo amico in coma e nel suo percorso, forse di espiazione, sembra non accorgersi delle piogge o del caldo, sembra non dare peso ai luoghi dove riposare e alla strada ancora da percorrere. Il nostro protagonista, descritto in maniera eccelsa dalla penna di Pedani, vuole mandarci un segnale, vuole farci comprendere quanto sia necessario oggi cercare di riallacciare il nostro cordone ombelicale con la natura che ci gira intorno, con il mondo, con quello che c’è fuori, per quanto possa essere pericoloso e impervio.
Lo stile di Giulio Pedani, la sua scrittura asciutta e puntuale, è la mano migliore a cui aggrapparsi per farsi trascinare e guidare in questo L’iguana era a pezzi, in questo spaccato di vita e di reminiscenza, pieno di realtà e colmo di nostalgia.
«La vecchia peschiera era una grande tomba aperta. Una grande bara piena d’acqua. Un enorme sepolcro cubico circondato dai pruni, dalle ortiche, dai rovi, dalle rose canine, dagli agrifogli, dal pungitopo, da qualsiasi escrescenza spinosa. Una tomba aperta delimitata da una recinzione e un cancello socchiuso mangiato dalla ruggine e coperto di frasche. Una grande peschiera abbandonata, sotto il paese fantasma di Veroli. Solo una volta, prima di allora, Igor si era avventurato fin là, a diversi chilometri dal borgo, in un pezzo di campagna che gli uomini avevano lasciato in gestione a forze sconosciute e inquiete, fino alla radura circondata da un bosco buio di conifere. Falkor era scappato e lui era uscito a cercarlo. Aveva corso per chilometri.»
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Una strada da mangiare, da divorare, chilometri da fare per recuperare pezzi sparsi di memoria da miscelare con il presente, con quello che siamo, con quello che siamo stati e con tutto quello che non siamo mai riusciti a diventare.
Per la prima foto, copyright: Philipp Kämmerer su Unsplash.
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