Il vento inquieto della città. “Il pianto dell’alba” di Maurizio de Giovanni
C’è un vento che, quando soffia, non porta mai buone notizie. È il libeccio che si alza a luglio e, cambiando direzione, ha il potere di scombussolare le vite delle persone, i rapporti, gli equilibri che s’instaurano tra le mura domestiche, perfino gli amori più grandi. L’aria che trasporta è carica di incertezza, inquietudine che, correndo tra le strade della città, s’insinua nelle menti degli individui, piantandovi il seme del cattivo presagio.
Ed è ciò che accade a Luigi Alfredo Ricciardi, protagonista del romanzo Il pianto dell’alba (Einaudi, 2019) con cui l’autore mette fine a un ciclo tanto amato dal pubblico. Maurizio de Giovanni aveva annunciato che le vicende del Commissario dagli occhi verdi non avrebbero avuto un seguito, gettando i numerosi ammiratori in un’attesa di curiosità e dispiacere per una chiusura, almeno per ora, senza speranza di appello.
Per chi, come me, sentiva un legame quasi personale con l’uomo dallo sguardo profondo e dall’animo sensibile e tormentato, addentrarsi nella sua ultima storia ha rappresentato un distacco difficile da affrontare, tanto da indurmi a centellinare ogni capitolo, stretta tra il desiderio di scoprire quale sorte spettasse al protagonista e la ritrosia di dover accettare che il punto finale, questa volta, sarebbe stato definitivo.
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Fin da subito s’intuisce che ci saranno lacrime amare da versare, che ci si sta imbattendo in una vicenda dove il lieto fine non è previsto. La sensazione dominante è che qualcosa di tragico possa accadere ogni volta che si gira pagina, con un’uscita di scena improvvisa del Commissario. Ad aumentare il batticuore ci pensa il contesto storico in cui la trama si sviluppa, un’epoca in cui le sparizioni sono all’ordine del giorno, travestite da finte partenze o trasferimenti repentini. Un pericolo a cui si espone lo stesso commissario nel momento in cui a essere coinvolta in un omicidio è una persona a lui cara: Livia Lucani Vezzi. Figura ambigua e controversa, ammirata per la sua eleganza e bellezza, ma allo stesso tempo invidiata e soprattutto invisa alla maggior parte dei lettori in quanto rivale dell’introversa Enrica, in quest’ultimo episodio appare in tutta la sua fragilità, sciogliendo la coltre di algida sicurezza da cui era stata avvolta fino a quel momento.
«Tanto la Livia di allora era piena di baldanza e di fascino, quanto l’attuale appariva avvilita, in fuga. Il viso era scavato e privo di trucco; le mani recavano i segni del tormento degli ultimi giorni. Si era lavata e vestita: ma non era stato sufficiente a restituirle lo smalto.»
Rinchiusa infatti in un manicomio sotto falso nome quale capro espiatorio di un piano dai contorni oscuri, messo in atto da personalità connesse alle gerarchie fasciste, la donna prende coscienza della solitudine che la circonda e della falsità dei rapporti costruiti fino ad allora, abbandonandosi all’abbraccio dell’unica persona che ha a cuore la sua salvezza.
«Ricciardi scosse Livia per le spalle.
– Io non ti lascio sola. Quello che ti sta succedendo è anche colpa mia. Non ti abbandono. E no, non sei stata tu. Ne siamo certi.
L’abbracciò, e per un attimo rimasero stretti come se i giorni, i mesi non fossero mai passati.»
Ma se Livia è la principale sospettata, la vittima è il maggiore tedesco Manfred von Brauchitsch, un uomo che, invece, è stato vicino a convolare a nozze con Enrica, ormai consorte di Ricciardi e in attesa del loro primogenito. Una vicissitudine che bussa alla porta dei novelli sposi, rischiando di gettarvi l’ombra dei sensi di colpa, della gelosia, delle paure e di infrangere la perfezione di un quadro d’amore creato dopo tanto tormento.
Il groviglio che s’intreccia attorno alla misteriosa morte di Manfred è però anche un espediente per far emergere la meschinità di alcuni personaggi. I loro comportamenti, le parole che pronunciano, i gesti che compiono sono rappresentazione dei lati peggiori dell’essere umano: l’omertà, la corruzione, l’asservimento al potere, il disprezzo per i sentimenti più puri in nome dell’affermazione personale, lo spirito di vendetta. L’oscurità in cui si muovono queste figure ambigue tuttavia entra in contrasto con la briosità della città di Napoli, dei vicoli, degli abitanti che, malgrado le difficoltà economiche, sociali e politiche, la violenza, i soprusi, cercano di aggrapparsi alla bellezza delle piccole cose: un gelato in una giornata afosa d’estate, una passeggiata nel centro storico, un caffè e una sfogliatella gustati nella celebre pasticceria Gambrinus.
Nel buio delle coscienze, ormai annebbiate da un regime sempre più feroce e repressivo, l’autore fa risplendere una luce che si incarna soprattutto nella forza di ciò che unisce Enrica e Luigi Alfredo, un rapporto fatto di silenzi, occhi negli occhi, piccoli riti che consolidano, giorno dopo giorno, la consapevolezza che l’amore è in grado di sopportare anche un fardello pesante come quello che il Commissario si porta dietro fin dall’infanzia.
«Non saprai mai, amore mio, che sei stata tu a farmi arrivare l’unica percezione opposta a quelle che mi perseguitano dacché ero un bambino. Loro mi parlano di morte, a ogni angolo di strada, in mezzo alla via, dentro i portoni; e tu mi hai sempre parlato di vita.»
Una vita che scorre finalmente insieme, felice, in attesa di una nuova esistenza. Ma su cui aleggia un’inquietudine senza nome, trasportata dal vento che, in quei giorni di luglio, si alza in città, facendo perdere il lume della ragione ad alcuni abitanti e spingendoli a compiere gesti di inaudita violenza.
Eppure, ancora una volta, alla follia e alla rabbia lo scrittore napoletano contrappone la caparbietà e la rettitudine di chi non smette di agire secondo giustizia, di lottare per i propri ideali, di proteggere gli affetti personali. Ciascuno a modo proprio contribuisce alla ricerca della Verità, in nome dell’amore per l’altro.
È così per il medico Bruno Modo che, accompagnato dall’inseparabile cane, non esita a esternare una fede antifascista mentre partecipa alle indagini ufficiose avviate da Ricciardi per salvare la Vezzi ; lo fa il fedele brigadiere Maione, che non abbandona il suo superiore nemmeno quando è a rischio la propria incolumità, esponendo così la moglie alla possibilità di un rinnovato dolore; e in tal senso agisce perfino l’arcigna e poco avvenente domestica Nelide, che vive come una vera missione la cura del benessere di Enrica e Luigi Alfredo, al punto di escogitare un piano per fornire elementi utili alle ricerche. Infine c’è la contessa Bianca di Roccaspina, donna affascinante e vittima dello charme malinconico del Commissario, che rassegnata ormai al ruolo di amica, mette a disposizione la propria rete di contatti per aiutare l’uomo a sciogliere i nodi di un caso che, fino alla fine, disorienta il lettore.
Ognuno ha un ruolo di “luce” in questo impianto narrativo costruito con maestria, come solo Maurizio de Giovanni sa fare. La descrizione delle atmosfere partenopee, i dialoghi che alternano l’allegria dell’animo napoletano alle riflessioni intime, politiche e sociali dei vari personaggi, i richiami alla semplicità del mondo dei pescatori e delle prostitute, la personificazione di un agente atmosferico qual è il vento, gli elementi onirici attraverso le apparizioni di Rosa, storica tata di Ricciardi, tutto si incastra alla perfezione: ogni pezzo del puzzle è collocato al posto giusto, dando vita a una storia che è un viaggio soprattutto nelle imperfezioni umane, nella caducità dell’esistenza e nella profondità dei sentimenti.
La banalità non trova mai posto nella narrazione, al contrario, contiene un tesoro di messaggi sottesi sulle più svariate tematiche (l’etica, l’amore, il coraggio, l’onestà, l’amicizia, la libertà), che si unisce all’incanto suscitato dai passaggi dedicati al rapporto tra Enrica e Luigi Alfredo: in essi ci si sente talmente coinvolti da avere la sensazione di essere osservatori diretti dei loro dialoghi, del loro sfiorarsi, di quello scambio di pensieri che avviene anche senza che nessuna parola venga pronunciata.
In quei capitoli si percepisce l’immensità di un legame che, per essere raccontato, non ha alcuna necessità di un linguaggio ricercato: è dalla semplicità con cui lo si fa esprimere che il lettore viene risucchiato e poi vi resta imbrigliato, come sospeso sulle parole, sugli sguardi, su un’unione di due anime la cui forza attraversa l’inchiostro e la carta, costringendoti a prendere una pausa dalla lettura. Si resta fermi sulle pagine, faticando a procedere oltre, per paura che tutta la magia svanisca, nelle righe successive, contaminata dalle storture della realtà in cui quel sentimento vive.
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Una magia che non si dissolve nemmeno di fronte al toccante finale. La conclusione del ciclo di racconti dedicato al Commissario Ricciardi infatti lascia addosso la certezza che l’amore abbia compiuto il suo dovere, seppur nel dolore. E non è un caso che la narrazione si chiuda all’alba, quando la luce si fa largo tra le maglie della notte per usurparne il posto: è un altro giorno che inizia tra le strade della città, sono occhi nuovi che guardano il mondo, pronti a sfidare il vento che spira in direzione opposta e contraria. Con aria inquieta.
«Gli occhi, pensò lui. Gli occhi, amore mio. Neri, e vivrà la tua dolcissima vita. Verdi, e avrà il mio terribile destino.»
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