Il velo come una guerra d'immagini? – Intervista a Bruno Nassim Aboudrar
Sempre più, in Occidente e, in particolare, in Italia, si discute del velo islamico e dell’opportunità di lasciar circolare liberamente le donne musulmane che decidono di indossare burqa o niqāb. Ma cosa si nasconde dietro il velo islamico? È davvero un sedimentato della tradizione coranica ortodossa? E cosa anima le campagne, sia quelle del passato sia quelle attuali, contro il velo? Semplice strumentalizzazione politica o si tratta davvero di un percorso di emancipazione delle donne?
Ne abbiamo parlato con Bruno Nassim Aboudrar, docente di Estetica e Teoria dell’arte presso l’Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3 e autore di Come il velo è diventato musulmano, edito in Italia da Raffaello Cortina nella traduzione di Pietro Conte.
L’intervista è stata tradotta dal francese da Annamaria Trevale.
Che funzione assolveva il velo nella tradizione islamica sia verso le donne sia nella rappresentazione del potere (pensiamo, ad esempio, ai califfi omayyadi)?
L’uso di un velo molto coprente è attestato in Siria molto prima dell’Islam. Da un lato, dal Padre della Chiesa cristiana Tertulliano che cita «le pagane d’Arabia che si coprono il viso per intero»; dall’altro, da un rilievo scolpito nel tempio di Baal a Palmira (che i vandali di Daesh hanno appena distrutto).
In seguito, il Corano si mostra abbastanza indifferente al velo. È menzionato solamente, per le donne, al versetto 59 della sura 33, “Gli alleati” (la sua evocazione nella sura 24, versetto 31, precisa che bisogna abbassare un velo sul petto, in presenza di estranei). Si tratta dunque di una semplice raccomandazione, senza un valore simbolico – soprattutto senza quello di mostrare l’inferiorità della donna – come un «mezzo per farsi conoscere e non essere offese».
Le circostanze dell’origine di questo versetto sono note, e Fatema Memissi le ricorda: all’epoca, a Medina, i membri di una fazione, gli “ipocriti”, falsi convertiti, molestavano le musulmane fingendo di confonderle con delle schiave o delle donne empie. Si tratta dunque di una semplice misura pratica, del tutto occasionale.
D’altra parte, bisogna ricordare che uomini e donne indossavano (e talvolta indossano ancora oggi) delle stoffe sulla testa, con le quali potevano eventualmente coprirsi il volto.
Nel mondo musulmano coprire, velare, proteggere dagli sguardi non è avvilente in sé. Al contrario. Per esempio, in un’epoca in cui l’Occidente inizia a sviluppare dei rituali monarchici fondati sulla presentazione del re (sala del trono, ritratti, ecc.), i califfi omayyadi prendono l’abitudine di esercitare il potere celandosi dietro uno hijab. In seguito, a diverse riprese, i cerimoniali di corte nel mondo musulmano conferiscono un ruolo determinante al velo e al segreto.
Parole come abaya, hijab, niqāb e burqa sono ormai entrate anche nell’immaginario con cui l’Occidente interpreta e decifra l’Islam. Restando nell’ambito dei principi islamici, fino a che punto è possibile stabilire un legame tra il credo religioso e il velo delle donne?
Penso che il reale legame tra religione e velo femminile sia cristiano. È San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, che lo impone alle donne (le ebree non lo portavano) per partecipare alla preghiera. Egli ne fa di colpo l’emblema della sottomissione della donna all’uomo che è, lui, sottomesso a Gesù. Questa idea del velo come simbolo di sottomissione viene in seguito ripresa e sviluppata dai Padri della Chiesa, i fondatori del dogma cristiano. Uno di loro, il cartaginese Tertulliano, scrive al principio del III secolo: «il velo è il giogo della donna».
In principio, nell’Islam, il velo non è religioso, vale a dire che non ha una funzione simbolica e non interviene nel rapporto tra i fedeli e Dio (contrariamente alla circoncisione, per esempio). Ma l’Islam non separa l’aspetto giuridico, con la sua dimensione antropologica, da quello religioso.
A partire dal IX-X secolo, tuttavia, viene concepita una struttura giuridica abbastanza stabile, che determina tra l’altro il ruolo delle donne, stabilisce i loro doveri e le loro costrizioni, e giustifica il confinamento delle donne nell’harem, con l’obbligo del velo in caso di uscita. Il velo, in questo caso, non ha per nulla una funzione simbolica, ma coercitiva e pratica: è una specie di reclusorio portatile.
D’altra parte, bisogna sottolineare che il “velo” copriva realtà culturali molto diverse.
Le contadine non erano obbligate a portarlo, e neppure le Berbere (in generale, tranne quando si assimilavano alle Arabe). Nel Maghreb consisteva essenzialmente in una copertura di lana bianca, lo haik. Il velo nero, abaya, era molto raro, in uso più che altro nel mondo saudita, di rito hanbalita (o wahhabita), molto minoritario. Ma siccome, al giorno d’oggi, i sauditi hanno il denaro e controllano una buona parte delle comunicazioni intermusulmane, sono i loro usi che dettano legge. Si tratta di un fenomeno recente.
Se nella tradizione coranica il velo nasce come elemento non afferente alla religione, oggi invece, sembra quasi essere diventato un emblema della religione, qualcosa di inerente all’Islam stesso. Attraverso quale percorso è arrivato a giocare questo ruolo di primo piano? È solo una sedimentazione a opera della giurisprudenza islamica (fiqh), oppure possiamo rintracciare anche altre motivazioni storiche e religiose?
La mia tesi è che il velo sia divenuto un elemento centrale in una specie di “guerra d’immagini” che combattono il mondo musulmano (nella sua versione più virulenta, o fondamentalista) e il mondo occidentale.
In partenza, l’Islam è una religione che non solo rifiuta le immagini, ma mostra una grande diffidenza riguardo alla vista e al visibile. Si tratta di una differenza essenziale con il mondo ellenistico e poi cristiano che, al contrario, dedica una specie di culto allo sguardo e a ciò che si vede.
Già per Platone, la vista è il meno miserevole dei sensi, e la bellezza la più bassa delle Idee, ma tuttavia un’Idea. In seguito l’Occidente cristiano sviluppa simultaneamente le immagini e i mezzi per renderle visibili. Ricordiamo, in ordine sparso, l’architettura religiosa che organizza le navate e i cori perché i fedeli possano assistere (vedere) alla celebrazione dell’eucarestia; il gusto europeo per la pittura; la vista di Beatrice che eleva Dante e gli apre le vie della Salvezza; il tracciato di vie rettilinee, l’organizzazione di prospettive e l’inquadramento della natura in paesaggi. In tutto questo periodo il mondo musulmano, nella sua diversità, si caratterizza al contrario per un ascetismo del visibile: il moucharabieh (grata) al posto della finestra, il muro di qibla (indicatore della Mecca) delle moschee al posto delle vetrate del coro delle chiese; il cortile chiuso e segreto al posto del giardino di rappresentanza, ecc.
Questi due regimi di visibilità, uno favorevole alla vista e alle immagini e l’altro diffidente nei loro confronti, coesistono all’incirca fino all’arrivo di due avvenimenti concomitanti: la colonizzazione europea di una parte dei territori dell’Islam e l’invenzione della fotografia.
In un primo momento il mondo musulmano resiste a entrambe le cose (per esempio, in Medio Oriente per molto tempo i fotografi saranno cristiani). In seguito, quando l’Occidente fallisce nella sua ambizione coloniale, guadagna sul terreno del visibile e delle immagini.
Oggi, con il cinema, la televisione e soprattutto Internet il solo regime di visibilità che resiste è quello in cui si può vedere tutto: dove la vista è costantemente saturata da immagini di tutti i tipi. Ma il conflitto non si è estinto, al contrario.
Attualmente, l’Islam radicale contesta dall’interno il dominio del visibile sovvertendolo. Il primo di questi capovolgimenti è stato quello di trasmettere all’Occidente immagini della negazione d’immagini, per mezzo di quelle donne velate che mostrano di nascondersi.
Valori iconografici e morali (insieme) tipici dell’Occidente – il viso femminile come intercessione, la mescolanza dei sessi in pubblico, la trasparenza, ecc. – vengono così calpestati. Ma questo non avviene senza paradossi, dal punto di vista islamico, perché l’Islam si obbliga a trasgredire un doppio divieto: quello delle immagini e quello dell’esibizione femminile, perché fa delle donne velate un simbolo, destinato in gran parte allo sguardo occidentale, che viene così offeso.
Eppure dei tentativi di modificare o arginare la tradizione del velo ci sono stati. Pensiamo, ad esempio, al movimento della Nahda in Egitto, che però si è scontrato anche con alcune resistenze femminili. Quali sono stati gli errori di quel movimento? Cosa gli è sfuggito?
Nato in Egitto a metà del XIX secolo e diffuso in quasi tutto il mondo musulmano (arabo e non arabo, sciita e sunnita), la Nahda o Rinascimento, è un movimento che sperava di condurre il mondo musulmano nella modernità ispirandosi a elementi che avevano avuto successo nella cultura europea (ricerca tecnologica, liberalizzazione economica, democrazia ed emancipazione delle donne), giudicati compatibili con l’Islam.
Dopo il 1900, un giurista come Qasim Amin pubblica un libro intitolato La liberazione delle donne, nel quale si appella al loro abbandono del velo, alla loro educazione, ecc.
Io non so se si possa parlare di “errori” della Nahda. Il movimento è rimasto senza dubbio troppo confinato nelle sfere ristrette di un’élite intellettuale. Ma penso che la responsabilità delle potenze coloniali in questo fallimento – e nelle delusioni che ha suscitato – sia enorme.
In seguito a questo “fallimento” abbiamo assistito a una ripresa di controllo del dibattito intellettuale da parte dei rappresentanti di un Islam reazionario e molto antioccidentale.
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Veri e propri svelamenti forzosi si sono adottati nella Turchia di Mustafa Kemal e nell’Iran di Reza Scià. A questo proposito, lei parla di una «spettacolarizzazione della laicità» e di «spettacolo degli svelamenti». Quale fu il ruolo delle donne in tali svelamenti?
Profondamente influenzato dal pensiero dei Tanzimat (una versione ottomana della Nahda), Mustafa Kemal organizza l’emancipazione delle turche a tappe forzate. Accorda loro il diritto di voto nel 1930 (elezioni locali) e nel 1934 (tutte le elezioni e l’eleggibilità) – mentre in Francia e in Italia accadrà nel 1946! – e impone che abbandonino il velo. In quel caso si tratta di una volontà generale di occidentalizzare la giovane Turchia: allo stesso modo, agli uomini viene proibito d’indossare il fez e i pantaloni a sbuffo, mentre ai funzionari è imposto di rasarsi e di tagliare i baffi. Viene presa qualche misura di transizione: le donne anziane, per esempio, possono continuare a portare un foulard discreto.
Non va allo stesso modo, dieci anni più tardi, nell’Iran dello Scià Reza. Influenzato dalle riforme di Ataturk, di cui ha potuto vedere gli effetti durante un viaggio ufficiale nel 1935, lo Scià proibisce brutalmente l’uso del velo alle donne. L’Iran sciita è molto religioso, e moltissime donne accolgono il divieto come un affronto che viene fatto loro.
In Turchia, e in misura minore in Iran, gli svelamenti sono spettacolari in senso proprio e non figurato: danno luogo a innumerevoli sfilate, cerimonie pubbliche, fotografie, conferenze stampa, ecc. Essi divengono il simbolo dell’accesso di questo Paese alla “modernità”, percepita secondo una visione occidentale.
A proposito di svelamenti forzosi, molto particolare risulta il caso di Algeri, nel 1958 in piena guerra per l’indipendenza. Ci riferiamo all’episodio del 13 maggio 1958, quando Lucienne Salan, moglie di un generale francese, prende parte a una manifestazione a Place du Forum durante la quale alcune donne musulmane, soprattutto inservienti delle organizzatrici, si tolgono il velo e lo bruciano con gesto cerimoniale. Un fraintendimento in buona fede da parte della Francia, un uso strumentale per fini politici o un modo per rispondere all’uso del velo nella lotta armata?
L’atteggiamento della potenza coloniale francese riguardo al velo femminile è sempre stato molto ambiguo. Complessivamente, in Algeria, istituendo degli stati giuridici differenti per gli “indigeni” musulmani da un lato, per gli ebrei e i coloni dall’altro, il diritto coloniale protegge il velo – così come la poligamia, il matrimonio dei minorenni, ecc. Ma benché lo proteggano, i coloni lo tollerano assai poco, per due opposti motivi. Da una parte, essi identificano nel velo una forma permanente di sedizione: gli uomini arabi nascondono le loro donne allo sguardo dei coloni; per mezzo del velo, una parte della popolazione sfugge, simbolicamente, alla sorveglianza e alla dominazione coloniale. Per reazione a questo stato di fatto, i coloni in Algeria (e in misura minore anche negli altri Paesi del Maghreb) moltiplicano le provocazioni: fotografie oscene di musulmane velate, ma nude, espressioni offensive (“fantasmi”, “fagotti”, “sacchi di biancheria sporca”…) Da un’altra parte, le donne francesi più o meno “femministe” e gli ambienti coloniali benevoli identificano nel velo uno strumento di oppressione delle donne arabe e intendono lavorare, attraverso la sua abolizione, alla loro emancipazione.
Queste due correnti opposte tra loro (una razzista, l’altra compassionevole) convergono durante la guerra d’Algeria. A quell’epoca, il velo è davvero diventato un simbolo sovversivo e gli ambienti coloniali fanno un tentativo dell’ultima ora per accattivarsi le donne arabe. È all’interno di questo contesto che arriva l’iniziativa di Madame Salan di organizzare delle cerimonie pubbliche di svelamento.
A proposito degli svelamenti voluti dal Primo Ministro tunisino Habib Bourguiba nel 1966 lei parla di uno spettacolo che da drammatico e tragico si fa comico. Al di là dell’episodio citato nel libro, a cosa è dovuto quest’interesse politico intorno al velo?
Nel caso della Tunisia, Bourguiba ha davvero portato alle donne delle riforme estremamente favorevoli. Il Codice di stato individuale, del 1956, che rimpiazza la sharia, sui diritti delle donne è sensibilmente più avanzato rispetto alla Francia o all’Italia nello stesso periodo, nella misura in cui riconosce il divorzio (con in più la possibilità di sposarsi senza il consenso del padre, la gestione autonoma dei propri beni patrimoniali, ecc.). All’epoca, si raccomanda alle donne di rinunciare al velo. La scenetta girata per i notiziari televisivi nel 1966 è quindi divertente soprattutto perché è tardiva e molto “enfatizzata”.
La donna velata, però, sembra turbare molto ancora oggi l’Occidente. C’è davvero nel velo lo strumento per un predominio sulla donna, per una sua esclusione dalla vita pubblica? Oppure torniamo alla posizione per cui «la condizione femminile viene a essere il perno di una critica della società islamica»?
Bisogna distinguere secondo le situazioni. In una parte importante del mondo musulmano (Arabia Saudita, Iran, Afghanistan, ecc.) il velo è senza dubbio uno strumento coercitivo.
Detto questo, sono, nell’insieme, delle società estremamente coercitive in generale: lì il destino delle donne è senza dubbio peggiore di quello degli uomini, ma nessuno dei due sessi sfugge a un arsenale di misure lesive della libertà.
Nelle società laiche – come le società europee – le donne che scelgono di velarsi lo fanno liberamente. La maggior parte di loro dimentica che si tratta – altrove – di uno strumento di coercizione, lo fanno per dei motivi religiosi. Mostrano così la loro simpatia per un certo numero di valori “puritani” come fanno i bigotti di tutte le religioni, e la loro antipatia per i valori contrari. Infine, una minoranza investe in questa manifestazione religiosa un’aggressività più o meno grande nei confronti dei valori “occidentali”, a volte un’aggressività spropositata.
A me sembra che le nostre società debbano dare delle risposte equilibrate a questo fenomeno.
Nel caso della Francia (non conosco molto bene la situazione italiana), io sono contrario al divieto del velo nelle università (in progetto), perché parliamo di adulti, e la legge non deve intervenire nelle scelte d’abbigliamento – mi sembra che questa sarebbe una limitazione assurda della libertà. In compenso, però, trovo normale che i funzionari pubblici (insegnanti compresi, ovviamente) non abbiano il diritto di coprirsi con il velo al lavoro, perché essi rappresentano uno Stato laico. Infine, nel momento che stiamo attraversando, mi sembra ugualmente normale che siano proibite delle manifestazioni di solidarietà o di simpatia riguardo a un’ideologia che si augura in modo esplicito la nostra distruzione: in particolare, ad esempio, il velo integrale secondo le forme volute dagli estremisti musulmani.
Dopotutto, si proibisce anche l’uso della croce uncinata, e mi sembra una buona cosa.
Il dibattito pubblico occidentale si appunta molto sull’uso del velo da parte delle donne musulmane che vivono in Occidente, soprattutto a seguito degli attentati di Parigi (il timore è che, come nell’Algeria del 1958, il velo sia usato dai terroristi per celarsi). Lei stesso ritiene che, in questo caso, il velo, che le donne dicono di indossare per esprimere concretamente il loro rispetto della fede islamica, rappresenti un tradimento dell’Islam. Quali sono le ragioni di questo tradimento e come si concretizza?
Io non mi azzarderei a parlare di “tradimento dell’Islam”, perché non sta a me giudicare, ma ai musulmani. Mi accontento di constatare questo paradosso, che vuole che le donne velate in Occidente (intendo dove il velo è molto visibile, non parlo evidentemente di un fazzoletto più o meno coprente sulla testa) siano divenute un’immagine dell’Islam, religione senza immagini e per tradizione favorevole all’occultamento delle donne.
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