“Il treno dei bambini” di Viola Ardone viaggia spedito nel cuore dei lettori
Il treno dei bambini di Viola Ardone, pubblicato da Einaudi Stile Libero, è uno dei casi editoriali dell’anno. Basti pensare che alla fiera del libro di Francoforte le case editrici hanno fatto a gara per aggiudicarsi la pubblicazione e che il romanzo verrà tradotto in almeno venticinque lingue. Un successo internazionale insomma. Ma cosa lo rende così speciale?
La storia catapulta il lettore all’indomani della Seconda guerra mondiale, in una Napoli devastata dal conflitto. Qui la popolazione allo stremo fatica a mettere in tavola anche un semplice pezzo di pane. Proprio come l’Amalia della Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, Antonietta Speranza, mamma di Amerigo, il piccolo protagonista del romanzo, tira a campare con il commercio illegale di caffè. Nei bassi dei vicoli della città tutti si arrangiano come possono e quando il Partito Comunista escogita il modo per strappare i bimbi dalle misere condizioni in cui vivono, sono tante le famiglie che aderiscono all’iniziativa. La soluzione è il cosiddetto “treno dei bambini”:
«Da quando si è saputo il fatto dei treni, dentro al vicolo abbiamo perso la pace. Ognuno dice una cosa diversa: chi sa che ci venderanno e ci manderanno all’America per faticare, chi dice che andremo in Russia e ci metteranno nei forni, chi ha sentito che partono solo le creature malamenti e quelle buone se le tengono le mamme, chi non se ne fotte proprio e continua come se niente fosse, perché è ignorante assai.»
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L’autrice napoletana affronta il difficile periodo del dopoguerra attraverso gli occhi di Amerigo, personaggio di fantasia che incarna l’essenza, i timori e le speranze di tutti i bambini che negli anni compresi tra il 1946 e il 1952 salirono sui treni della solidarietà, non – come teme il piccolo – «per andare in Russia, dove ci tagliano le mani e i piedi e non ci fanno tornare più» bensì nel nord Italia grazie alla generosità di tante famiglie.
La scelta di Viola Ardone di adottare il punto di vista di un bambino di sette anni è il punto di forza del romanzo. La narrazione procede con un linguaggio volutamente semplice dal punto di vista grammaticale ma ricco al livello contenutistico nonché totalmente in linea con la visione del mondo di Amerigo. Come già Jonathan Safran Foer nel toccante Molto forte, incredibilmente vicino, che segue il dopo 11 settembre attraverso gli occhi del novenne Oskar Schnell, Il treno dei bambini esplora i meccanismi della mente di un protagonista bambino. Anche qui, come nel libro di Safran Foer, in cui Oskar per l’intera narrazione tiene il conto delle sue bugie, numerandole e interrogandosi se siano o meno valevoli di entrare nella lista, abbiamo un bollettino aggiornato e costante, per l’intera durata del romanzo, di una piccola ossessione del protagonista: le scarpe.«Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male. Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. Hanno pigliato le abitudini loro, hanno fatto altre strade, altri giochi. E quando arrivano a me, che ne sanno di come cammino io e di dove voglio andare? Si devono abituare mano mano, ma intanto il piede cresce, le scarpe si fanno piccole e stiamo punto e a capo.»
L’autrice dipinge la difficile realtà del romanzo con il candore e la naturale innocenza che solo i bambini hanno. Spesso ci scappa una risata poiché Amerigo, privo del background culturale degli adulti, equivocando le situazioni dà vita a ragionamenti buffi ed esilaranti:
«– Chi è quel signore pelato dentro al quadro, il tuo compare di battesimo?
– Quello è il compagno Lenin, – dice senza guardarmi in faccia.
– È amico di vostro padre? – chiedo io.
– Di tutti. Dice il babbo che ci ha insegnato il comunismo.
– Nessuno nasce imparato, – concludo.
[...]
Il direttore ci chiama: – Prego! – E noi entriamo. È un signore alto e pelato, tale e quale a quello del ritratto a casa di Alcide e Rosa. Chiedo sottovoce al maestro se per caso il direttore di cognome fa pure lui Lenín, come quello che insegnava il comunismo. Lui lo guarda come per la prima volta e si mette a ridere.»
Amerigo non sa a cosa va incontro. L’eventualità di abbandonare le uniche certezze della sua piccola esistenza – il vicolo, l’amichetto Tommasino con cui vende le “zoccole pittate” al mercato, spacciandole per criceti e la madre ovviamente che, benché non lo abbracci mai, lo ama più di qualsiasi altro al mondo – lo spaventa. Ma alla paura dell’ignoto si sostituisce ben presto una realtà accogliente e un ventaglio di possibilità mai paventato prima.
Amerigo si ritrova così a Modena dalla signora Derna e dalla cugina Rosa. La famiglia Benvenuti, nomen omen, lo accoglie come un figlio. Alcide, la prima figura paterna che abbia mai conosciuto – il papà biologico «se n’è andato all’America» –, gli fa anche il primo regalo della sua vita – un violino – assecondando il suo talento per la musica, mentre i tre figli Rivo, Luzio e Nario lo accettano come un quarto fratello. I mesi modenesi sono come un sogno a occhi aperti, le figure forse un po’ stereotipate, incarnano tutto il buono del Partito e degli ideali che hanno animato la Resistenza e la nascita di una nuova Nazione, provata dal conflitto mondiale ma finalmente libera e democratica. Si viene a creare così quella cesura tra due mondi distanti che accentua e mostra in tutto il suo duro realismo una delle problematiche del romanzo: il dolore di una madre che è costretta a farsi da parte per il bene del figlio.
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Ed è proprio il rapporto con la madre al centro dell’ultima parte del libro, ambientata nel 1994, quando Amerigo fa i conti non il proprio passato. Il linguaggio innocente del bambino lascia il posto a un nuovo punto di vista, quello dell’uomo adulto e consapevole che si rivolge direttamente a lei, alla donna che lo ha messo al mondo. È un tuffo nei ricordi, un colpo al cuore, «una tristezza nella pancia», proprio come quando, tanti anni fa, su quel treno, «tutto è andato cosí veloce» da non poter più tornare indietro.
Il treno dei bambini pagina dopo pagina procede davvero spedito, merito della scrittura coinvolgente dell’autrice Viola Ardone e della commovente storia narrata.
Per la prima foto, copyright: Ankush Minda su Unsplash.
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