Il terribile potere della maldicenza. “Piena di grazia” di Licia Pizzi
Puntata n. 63 della rubrica La bellezza nascosta
«Amore. Ma che vuol dire. Da dove si era fissata con questa cosa, come aveva cominciato a pensarci. La parola. L’amore di Dio e l’amore degli uomini. In chiesa ne aveva sentito parlare. Ma quello era un amore incommensurabile, che non poteva essere compreso. Un amore per ogni cosa, per ogni essere vicino e lontano. Per tutte le creature. E la nonna pregava. Rosari di legno dai grani invecchiati al passaggio ossessivo tra le dita nodose. A ogni Amen un cenno del capo a dire Sì, così sia.»
C’erano tempi, una volta, in cui si credeva che il male fosse una magia. Si pensava che i mostri fossero materiali, corporei; che le maledizioni uscissero dalle labbra delle persone, che fossero parole seguite dal fiato e dal calore della carne. C’erano questi tempi e forse ci sono ancora, resistono in luoghi dove le menti non hanno progredito verso la conoscenza o, semplicemente, non hanno voluto credere al pensiero scientifico e razionale, ritenendo più veritiere le storie e le leggende tramandate, tra le mura di casa, da nonne e vecchie zie.
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Esistevano terre dove alcuni esseri umani venivano bruciati sui roghi perché si pensava fossero demoni; o, in maniera più sbrigativa, venivano uccisi, sgozzati, come animali, per via di strane credenze, pettegolezzi. Erano posti in cui le parole correvano veloci da una casa all’altra e dove nessuno, poi, si preoccupava di capire cosa ci fosse di vero e cosa no; le voci si spargevano, diventavano, di bocca in bocca, assolute verità.
Licia Pizzi è nata a Benevento nel 1974, il romanzo Piena di grazia è stato pubblicato dalla casa editrice Ad est dell’equatore.
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Ci troviamo in un paesino del Sud, rurale, legato all’agricoltura. Qui c’è Grazia, una ragazza grossa e forzuta, rabbiosa, che inizia a scontrarsi con gli impulsi adolescenziali e con le emozioni che si affollano dentro di lei e a cui non riesce a dare un nome. Vive in una famiglia povera, nella sporcizia, fin quando un giorno don Rafele, un ricco macellaio del paese, non la chiede alla madre come serva in casa sua. Da questo momento, Grazia scoprirà pian piano un mondo a lei sconosciuto e soprattutto comprenderà quanto possano essere effimere le speranze.
«L’asino ragliava forte. Grazia sferzava delle stilettate con la canna di salice ai fianchi dell’animale che non si muoveva. Il sibilo del bastone faceva vibrare l’aria. Lui ragliava e lei lo colpiva più forte, poi più forte, più forte ancora. L’animale non si muoveva, nonostante le zampe posteriori tremassero dal dolore. Quando le montava la rabbia così, non c’era niente da fare. Con gli anni era peggiorata.»
Piena di grazia è un romanzo denso, forte, nel quale l’autrice, nata nel beneventano (la terra delle streghe), ci racconta una storia di janare e malefici, di leggende e credenze popolari, e lo fa con una scrittura bellissima, sicura, ferma. Attraverso i movimenti di Grazia e la sua rabbia, la sua frustrazione e la sua ingenuità, Licia Pizzi ci porta dentro una fiaba di bestie (sia umane che non) e di delusioni. Tutte le pagine sono pervase dal senso di inquietudine e di frustrazione di questa ragazza che vorrebbe cercare di capire cosa siano i malesseri fisici che sente di tanto in tanto e se ci possa essere una relazione tra il suo corpo e la sua mente, tra i suoi stati emotivi e i suoi dolori fisici.
«Quella frenesia nello stomaco torna a volte, ancora a farla sentire inadeguata, rabbiosa, furiosa anche. Ne ha mangiato così, per provare, per non tornare a casa con la fame in corpo. Così tanto per fare. Non che Grazia sappia quello che fa, non sempre almeno. Ne ha raccolti mucchi che poi ha portato con sé. Anche questo, così per fare. La prima volta ne ha mangiato e poi ha visto una luce, la grotta illuminata.»
Licia Pizzi racconta un tempo passato, narra un luogo che è appartenuto a tutti noi, con parole piene e affilate, passa tra le mani, come fossero i grani di un rosario, le giornate e le ossessioni di un paesino agricolo, sperduto, immaginifico, dove la ragione è lontana dalla verità e dove le streghe decidono della salute e delle disgrazie, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato.
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Sarà capitato a tutti di trovarci davanti a un fuoco, con una nonna di fianco che ci racconta una storia, che con parole accorte prova a parlarci di leggende, dicerie, misteri. E sarà capitato a tutti noi, bambini, di credere a quelle storie, di crederci tanto da non dormire poi di notte. Streghe e mostri e diavoli che ci siamo portati dentro il sonno, dentro i sogni. Ma c’era un tempo, e noi questo non potevamo saperlo, in cui quelle storie decidevano della vita e della morte di persone comuni che avevano avuto la sfortuna di finire sulla bocca di tutti, per un capriccio, un malinteso, per invidia o per rabbia. Ancora oggi, se qualcuno dice: janara, si può sentire qualcun altro rispondere: oggi è sabato.
Per la prima foto, copyright: Thought Catalog su Unsplash.
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