Il tempo delle donne: prigioniero della natura e della società. “Orologi rossi” di Leni Zumas
È prigioniero della natura e della società il tempo delle donne di Orologi rossi (Bompiani 2018, traduzione di M. Z. Ciccimarra), il primo romanzo pubblicato in Italia da Leni Zumas, scrittrice e professoressa di Scrittura creativa presso l’università di Portland.
L’autrice tesse la sua trama in una cittadina di pescatori dell’Oregon, sullo sfondo di un Paese, gli Stati Uniti, in cui una legge federale ha sancito l’illegalità non solo dell’inseminazione in vitro e dell’adozione da parte di coppie non coniugate, ma anche dell’aborto. E in cui, a garanzia del rispetto di questi divieti, un Muro Rosa è stato eretto al confine con il Canada, proprio allo scopo di bloccare i tentativi di fuga organizzati per aggirare la legge.
Al di là di quel muro è riconosciuta la libertà di scelta; al di qua invece si sviluppano le vicende delle quattro protagoniste, a prima vista diverse tra loro, ma in realtà accomunate dalla condizione di vittime di stereotipi, leggi arcaiche e sessiste, ruoli in cui non si riconoscono e paure del giudizio altrui.
Con una scrittura che alterna l’ermeticità alla semplicità del linguaggio parlato, e un ritmo che trascina il lettore tra la curiosità e la monotonia, l’autrice americana crea, in maniera cinematografica, un’atmosfera inquieta attorno alle quattro donne; e per farlo, si serve delle descrizioni dei luoghi in cui si srotolano le loro relazioni, i loro gesti e i loro pensieri. Paesaggi nostalgici e multiformi che contrastano con quelle vite asetticheche, dietro la quotidianità e la ripetitività dei gesti, nascondono fratture, cicatrici e tumulti interiori. Segreti che devono restare tali per non contaminare la bellezza di quei luoghi e la pace della loro comunità.
«[…] A Newville vedi il mare mangiarsi la terra, incessantemente, senza mai arrestarsi. Milioni di abissali acri talassici. Il mare non chiede permesso e non aspetta un comando, non soffre perché non sa esattamente cosa diavolo debba fare. Oggi le sue mura sono alte, schiuma bianca squarciata che si schianta con violenza contro i faraglioni […]».
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Eppure, a macchiare quelle acque, quelle colline, quelle falesie non sono le contraddizioni e le imperfezioni di queste quattro donne, ma i comportamenti degli uomini che assumono varie forme: dalle pratiche crudeli ai danni degli animali alle accuse che rimandano alle antiche credenze di esercizio della stregoneria, fino a delle leggi che riducono la donna a una semplice scatola che crea, accoglie ed espelle una vita a forma di bambino.
Il loro tempo, come quello di tutte le donne, è infatti diverso da quello scandito da un qualsiasi orologio. Quest’ultimo è libero. Perché anche quando determina il ritmo del lavoro, delle relazioni, dei doveri continua a scorrere, indipendentemente da noi, dai nostri desideri e dalle nostre esigenze; talvolta scivola, malgrado la volontà di trattenerlo; e al contrario, quando la nostra anima si fa scura o è preda della noia e dell’attesa, si fa lento, infischiandosene delle spinte acceleratrici.
Il tempo invece misurato da un orologio incorporeo, contemporaneamente nascosto sotto la pelle delle donne e percettibile sui loro volti e corpi, è in balìa dell’invecchiamento, della genetica e di meccanismi inspiegabili che rivelano l’imperfezione della macchina umana.
Un prigioniero di colore rosso, il colore rappresentativo della vita perché il sangue nutre le nostre vene e il cuore, ma può essere una sua negazione allorché annuncia che un ventre è rimasto vuoto e non ha accolto un altro essere vivente; eppure si è rinnovato anche in quel momento, restando l’emblema di un dono o di un potere, a seconda del significato che gli si vuole attribuire: la procreazione. Ed è infatti la presenza di questo prigioniero ad annunciare che il corpo di una bambina si è trasformato in un corpo di donna, marcando l’inizio di un picchiettare di lancette ormonali che si susseguono, dapprima silenziose, poi più rumorose, a mano a mano che la giovane donna diventa adulta. Quello è il momento esatto in cui prende forma l’orologio biologico, simbolo di una disparità di genere perpetrata prima dalla natura, e in seguito dalla società. Perché accade a tutte le donne di sentirsi ricordare che quel “potere” prezioso di donare la vita si dissolverà presto e farà ritorno nelle mani di Madre Natura.
È per questo che il tempo non appartiene alle donne: è prigioniero fin dalla trasformazione dei loro corpi e le rende vittime di loro stesse nel momento in cui, non avendo voluto o potuto assolvere il loro compito –naturale e sociale –di essere madri, si sentono individui incompleti.
La scelta dell’autrice di indicare i personaggi, nel capitolo a loro dedicato, con il ruolo che svolgono nella società – la biografa, la figlia, la moglie, la guaritrice – non è infatti casuale, ma è una perfetta e sintetica rappresentazione della realtà.
«In una stanza per donne con il corpo guasto, la biografa di Eivør Mínervudottír aspetta il suo turno […]».
È così che viene presentata la prima protagonista, definita “la biografa” perché intenta a ricostruire la vita di un’esploratrice polare poco conosciuta. Ma lei non è solo questo: è anche un’insegnante quarantenne e single, il cui desiderio di avere un figlio è talmente forte da spingerla a sottoporsi a cure e visite mediche che minano non solo il suo corpo, ma anche la sua psiche, già segnata da una perdita dolorosa.
Non sono infatti servite le conquiste femministe a sradicare una convinzione dalle origini ataviche: la maternitàquale tappa fondamentale per la realizzazione di ogni individuo di sesso femminile. È questa l’etichetta “madre” di tutte quelle usate per definire le donne e a cui non possono sottrarsi senza essere triturate in unacompressa di accuse e critiche, suscettibili spesso di minare l’identità di tutte coloro che si interrogano sulla propria esistenza e sul proprio ruolo nel mondo.
«[…] Datemi la possibilità di ripetermi. Datemi una vita vissuta di nuovo, e più grande. Datemi una me stessa di cui prendermi cura, e meglio […]».
Il contesto familiare e sociale non solo non si interroga sulla sofferenza interiore di questa donna, ma guarda perfino con sospetto la sua scelta di affidarsi alla scienza per realizzare il suo sogno.
Una società che giudica anche quando il “dovere” di donare la vita viene assolto: è il caso della “moglie”che, giorno dopo giorno, sente crescere dentro di sé la necessità di dover essere più di una madre e di una moglie, ribellandosi a una vita fatta di attività costantemente uguali a se stesse e finalizzate a garantire esclusivamente il benessere degli altri, in particolare del marito e dei suoi bambini.
«[…] Potrebbe smettere di essere la moglie di Didier. In terapia i bambini incolperanno lei della loro infanzia spezzata e dei meccanismi maladattivi che hanno rovinato la loro vita adulta […]».
Dinamiche pressanti a cui non sfugge nemmeno la figura indicata come la “figlia”, una quindicenne che si pone le domande tipiche di chi ha vissuto le complessitàdell’adozione e la cui acutezza intellettiva non basta a fronteggiare la sua fragilità emotiva. Una fragilità che diventa evidente quando si ritrova preda degli stessi tormenti che probabilmente hanno attraversato la sua madre biologica. E che la conducono a una decisione sofferta che si snoda sullo sfondo di una società che, in nome di una legge discriminatoria, preferisce esporla a situazioni rischiose invece di garantirle sostegno e protezione.
Tra queste tre figure, legate dal filo della maternità nelle sue varie accezioni – negata, realizzata e indesiderata – si staglia la storia di una quarta donna, “la guaritrice”, amante della solitudine, della natura e degli animali, fervida convinta del potere delle erbe e delle piante da cui ricava le cure omeopatiche che somministra alle donne della città.
È un personaggio in apparenza priva di legami con le altre, soprattutto perché sembra trarre la sua forza proprio dalla ribellione alle etichette sociali e ai pregiudizi che ne derivano. Ma il coinvolgimento in alcune vicende legate ad altri abitanti del villaggio e la rivelazione di un segreto doloroso, la avvicinano alle altre protagoniste,gettando una luce sul messaggio sotteso a tutte le storie narrate: indipendentemente dalla professione, dalla maternità, dalle abilità scolastiche e professionali, dall’attitudine alla generosità e all’ascolto, ogni donna è oggetto, prima o poi, di un’accusa per la sua mancata adesione a un modello sociale e/o culturale. Non importa che si tratti di una decisione intima – una maternità da single, una separazione, un aborto, una relazione – o di un evento del proprio passato – un’adozione, un abbandono – o dello stile di vita adottato; perché laddove non sarà la società a esprimere una condanna, ci sarà probabilmente una legge che potrà spingersi a limitare un diritto fondamentale di qualsiasi essere umano: la libertà di scelta.
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Ma è proprio nell’esercizio di questa libertà che, seppur in forme diverse, queste quattro donne si ricongiungono, esponendosi alle critiche, alla solitudine, al dolore, ma affermando un principio essenziale per la loro emancipazione interiore: esiste sì un orologio biologico, ma non può e non deve essere il misuratore delle loro esistenze.
Una risolutezza che trova la massima espressione in una quinta donna del romanzo, Eivør Mínervudottír, la cui storia viene raccontata attraverso gli occhi della biografa. Eivør appartiene a un’altra epoca, ma malgrado ciò, non esita a sfidare le convenzioni culturali e sociali per inseguire il suo talento e la sua passione. E lo fa mettendo a rischio il suo corpo, la sua stessa vita, senza lasciarsi ostacolare nemmeno da quei limiti derivanti dal suo “orologio”. A quest’ultimo infatti non permette di imprigionare il tempo della sua esistenza di donna, ma solo quello della sua morte, congelandolo in una scia rossa, insieme ai pregiudizi della natura e della società.
Per la prima foto, copyright: Tyler Nix.
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