“Il superlativo di amare” di Sergio Garufi: la precarietà dell’autore contemporaneo
Edito da Ponte alle Grazie, Il superlativo di amare è il secondo libro di Sergio Garufi, che ha esordito nel 2011 con Il nome giusto, anch’esso stampato dalla casa editrice fiorentina. Il romanzo prende vita fra la Roma caotica di oggi, la pacifica e provinciale Umbria e le internazionali Bruxelles e Parigi. Il protagonista, Gino, traduttore italiano dell’epistolario di Julio Cortazar, viene licenziato ed è costretto a confrontarsi con se stesso e il suo presente: cinquantenne scapolo, vive a Roma col suo cane Tito, unico affetto stabile, tra amanti occasionali e la compagnia dell’unico amico rimastogli, il sofisticato Martino. Autore di un libro d’esordio presto finito nel dimenticatoio, Gino vedrà entrare nella sua vita di intellettuale (composta di conti bancari in rosso, disoccupazione, profondi disagi sociali) Stella, quarantenne attraente di cui s’innamorerà e sulla quale cercherà d’incentrare la sua rinascita personale.
Gino è un personaggio che si prende presto a cuore, per la sua goffa normalità, lontana dall’altezzosità tipica dell’intellettuale; per la sincerità, o forse per quella sorta di rassegnazione che sembra caratterizzarlo. Spicca, leggendo il romanzo, il forte legame di Garufi con il suo protagonista, tanto da dare a tratti l’impressione di trovarsi di fronte a un memoir, dove la non-fiction sembra predominare grazie alla tonalità fortemente realistica della scrittura dell’autore che sfocia in immagini nitide, in piccole scene quotidiane e in dialoghi finemente costruiti e mai esagerati. Non-fiction sulla quale viene a innestarsi la trama del romanzo, dalla scalata economica fortunosa del protagonista ai viaggi, al successo clamoroso, insperato e immeritato.
Garufi tratteggia in questo libro la precarietà dell’autore italiano di oggi, che si deve districare tra tempi di consegna ridotti, un ambiente letterario sempre più intimamente legato al commercio, la dipendenza e al tempo stesso la repulsione verso una grande città come Roma, che rappresenta sia l’allontanamento dalla provinciale Bevagna – legata a ricordi scomodi e platonici d’infanzia e adolescenza –, sia il disagio della vita moderna, tra orde di turisti, caos cittadino e un “mare culturale” sempre più popolato dai cosiddetti “squali”.
La generazione di Gino è quella dei cinquantenni di oggi, quella che ha in gran parte perduto il treno della rivoluzione digitalee che alle sue novità si deve forzatamente adattare; quella a cui tutti danno la colpa per la situazione di crisi attuale; quella dei cosiddetti “vecchi” da rimpiazzare, che cercano comunque di stare al passo e di avere un profilo Facebook, di usare uno smartphone, ma che per realizzare tutto questo devono faticare. Insomma la generazione che ha anticipato i nativi digitali.
Se nel libro d’esordio di Garufi ha grande rilevanza Borges (che l’autore ha conosciuto da bambino), domina in questo secondo romanzo la figura di Cortazar: il protagonista l’ha scoperto da adolescente con il suo romanzo più famoso, Il gioco del mondo (Marelle – titolo francese del romanzo – è ciò che legge un giovane Gino sulla copertina del libro di una ragazza completamente assorta nella lettura), amandolo fino a diventare il traduttore italiano del suo epistolario, che sarà punto di partenza per numerose riflessioni sulla vita dello scrittore argentino naturalizzato francese, dagli inizi alla sua affermazione come classico della letteratura contemporanea, toccando momenti importanti come l’abbandono del padre, le donne che ha avuto, le numerosissime case che ha cambiato, a Parigi e non solo.
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Più che Roma, l’Umbria, Bruxelles o Parigi, sembra sia proprio Cortazar il co-protagonista del romanzo; tanto è presente, come un fondale personificato: accompagna Gino (e anche il lettore) durante tutta la vicenda, come una figura paterna, una presenza familiare che, anche se non lo aiuta concretamente nell’affrontare i problemi della vita, lo prende per mano, quasi lo rassicura. Le donne amate, i cambi di domicilio, il talento puro affascinano il protagonista che, mentre porta a termine la traduzione, osserva, vigila e commenta – quasi sottovoce, con estremo rispetto – le scelte di vita di quello che è stato uno tra i migliori scrittori degli ultimi cent’anni.
Garufi è preciso e sottile, passionale e allo stesso tempo freddamente abile nell’esternare i sentimenti che il suo personaggio riversa nei pochi affetti che gli sono rimasti; con precisione e lucidità rari nel panorama letterario contemporaneo. Descrive l’Italia di oggi in modo allusivo, sfruttando il potenziale implicito di scene, oggetti e personaggi noti, come il caos del weekend nelle strade di Roma, gli smartphone, agenti letterari rapaci, la posa di Lilli Gruber durante la trasmissione Otto e mezzo, l’ascesa di Renzi. Si conferma voce fuori dal coro e non risparmia nessuno, nemmeno i suoi colleghi scrittori, di cui descrive l’ipocrisia prendendo i festival letterari come ambiente a campione.
Nei supplementi letterari dei quotidiani, in radio (qui il podcast di Fahrenheit), perfino Jovanotti in una sua JovaReview: tante buone parole sono state spese per questo romanzo e, lo si può dire, meritatamente. Freschezza e ironia fanno correre le pagine: una lettura piacevolissima, intima ma con sfondo sociale, divertente ma di spessore. Non è un caso che scrittori come Tiziano Scarpa («Oggi Sergio Garufi ha una delle penne più felici d’Italia.») e Giuseppe Genna: («Finché qualcuno sente e scrive come Garufi, significa che la letteratura e gli scrittori ancora parlano.») abbiano parole di stima nei confronti di questo autore: il suo stile è raffinato, dettagliato e denso di preziosismi linguistici, citazioni dotte e riferimenti culturali (mai altisonanti, sempre inseriti con modesta eleganza), ma allo stesso tempo semplice e diretto, evocativo (le belle descrizioni delle strade di Parigi ne possono essere un esempio). Ma Garufi è soprattutto passionale: nella sua semplicità, nella sua ironia, nel suo distacco; riesce a mettersi a servizio delsentire peculiare al personaggio, delle sue debolezze, della sua ipocrisia.
Un’ottima conferma per l’autore che, al contrario del suo personaggio, il suo secondo romanzo l’ha scritto ed è un lavoro di alta qualità; condivisibili le parole del citato Genna: la letteratura italiana parla ancora e Sergio Garufi è una delle sue voci più fini ed eloquenti, Il superlativo di amare ne è la prova.
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