“Il sole senza ombra” e il ’77 bolognese. Intervista ad Alberto Garlini
Alberto Garlini, scrittore e curatore del festival letterario Pordenonelegge, con Il sole senza ombra (Mondadori, 2021) ci racconta una vicenda che nasce in un momento preciso della nostra storia recente: le agitazioni studentesche che nel 1977 a Bologna contrapposero esponenti della sinistra extraparlamentare e di Comunione e Liberazione in uno scontro durissimo, culminate con la morte dello studente Francesco Lorusso e fermate da un intervento estremamente pesante della polizia, agli ordini del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, che non esitò a inviare in città i carri armati.In quella Bologna messa a ferro e a fuoco, ma anche mossa dall’ansia di rinnovamento che in quel periodo faceva nascere le prime radio libere e televisioni locali, il narratore Alberto conosce Elmo, aspirante comico dall’umorismo sovversivo. I due lavoreranno insieme qualche anno, il primo come agente del secondo, percorrendo l’Italia in cerca di palcoscenici dove allestire spettacoli irriverenti e controcorrente. La loro amicizia è però destinata a guastarsi, perché Elmo è una persona imprevedibile e sfuggente. Solo molti anni dopo Alberto, divenuto un affermato agente e talent-scout, decide di accorrere al capezzale dell’amico, ricoverato in ospedale dopo essere scampato a un rogo, non si sa se accidentale, provocato con intenti suicidi o come qualche vendetta personale da parte dei molti personaggi presi di mira dall’umorismo irriverente e spesso crudele di Elmo, un personaggio che rimane fino alla fine difficilmente decifrabile.
Perché raccontare oggi la Bologna del 1977? Ne abbiamo parlato con Alberto Garlini in questa intervista.
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Partiamo dai fatti di Bologna del 1977, quando l’allora Ministro dell’Interno Francesco Cossiga mandò i mezzi blindati a stroncare le manifestazioni di protesta della sinistra extraparlamentare, a cui è dedicata la parte iniziale del suo libro. Come mai ha scelto di parlare di quel preciso momento storico, che è stato abbastanza trascurato dalla storiografia successiva?
Ci ho pensato perché questo romanzo riflette, attraverso la storia e i personaggi, sulla bellezza e sui limiti della libertà di parola; e il 77 bolognese, con la sua esplosione creativa fatta di fumetti, punk, fanzine, radio libere è stato, almeno secondo me, uno dei momenti culmine della libertà di parola in Italia. Nel Movimento c’erano due anime in conflitto, quella più leggera e provocatoria, e quella invece più ideologica; e il conflitto genera sempre possibilità di storie scavate nella vita. Il 77 è stato l’ultimo momento della guerra fredda, e nello stesso tempo il primo momento dell’edonismo degli anni Ottanta. Era tante cose insieme, e a me più che dare un giudizio su quel periodo, o trovare delle cause, o stabilire rapporti, interessava capire come quegli avvenimenti storici si riverberavano nelle anime di tutti i miei personaggi. Per cui non c’è stato un solo 77 ma tanti 77, ognuno diverso per ogni personaggio. Alla fine credo che sia questo che deve fare uno scrittore, parlare di ciò di cui non parlano né gli storici né i giornalisti. Non deve spiegare il perché di un periodo storico, né svelarne i retroscena, ma cercare il riflesso della storia nell’esistenza di ognuno di noi.
Il protagonista del romanzo, Guglielmo Scardi detto Elmo, è un comico inquieto e disturbante. Perché ha scelto questo tipo di personaggio?
Elmo è un personaggio sfuggente: è un affabulatore, è capace di inventare mondi con una facilità stupefacente, e di portare le persone che gli stanno vicine a credere nei mondi che crea senza interruzione. Parlare con Elmo, ascoltarlo, è come salire su un ottovolante. Ti regala gioia, ma può anche essere crudele, perché il sogno in cui ti trovi catapultato, e che credi vero, in realtà a un certo punto non può che rivelarsi per quello che è: un sogno, appunto. E dai sogni, a un certo punto, ci si risveglia. Elmo è un mago del sogno tanto quanto lo è del risveglio. Ama far sognare le persone, così come ama farle risvegliare. I suoi amici, e i suoi amori, conosceranno tutta la gamma della sua innocenza e della sua crudeltà: saranno affascinati, abbandonati, traditi, riabbracciati. Tutto giocando su questa grande abilità e maledizione umana: riuscire a credere veri dei mondi immaginari.
Oggi è diventata quasi una moda aprire i romanzi con delle citazioni, che purtroppo spesso non hanno poi un vero legame con la storia, mentre la frase di Totò che apre Il sole senza ombra mi è sembrata perfetta per il suo protagonista: «Non si può essere un vero attore comico senza aver fatto la guerra con la vita». Bisogna quindi conoscere la sofferenza per imparare a creare effetti comici?
La comicità è fare irrompere nel mondo ordinario, che noi vediamo per abitudine, altri mondi possibili: creare quindi un contrasto tra ciò che vediamo abitualmente, e un altrove, spesso inimmaginabile fino al momento in cui un comico non ce lo pone davanti agli occhi. Per muovere questo meccanismo, è fondamentale scegliere un punto di vista strano, particolare, inedito. Faccio sempre questo esempio: se guardiamo una partita di tennis, siamo abituati a vedere la narrazione più ovvia: due atleti, magari rivali, che si scambiamo colpi chiamati dritto rovescio lob, con un arbitro che vigila, per arrivare a un risultato finale di vittoria o sconfitta tra sofferenza, orgoglio ostinazione e tutto quello che vogliamo. Ma proviamo a vedere la stessa partita con il punto di vista della pallina da tennis che viene sballottata e colpita da due energumeni, senza capire il perché, su un campo di gioco di cui non conosce nemmeno le dimensioni. Di colpo quella partita diventa comica e forse nemmeno solo comica, potrebbe somigliare perfino a una metafora della vita: non siamo tutti quanti palline sballottate di qua e di là da forze che non conosciamo? Ecco, per raggiungere questo effetto destabilizzante con un punto di vista che va molto oltre il punto di vista ordinario, credo che si debba avere sofferto nella vita. O perlomeno sentire le ferite di senso della realtà intorno a noi come fossero ferite fisiche.
L’ambientazione negli anni Settanta e Ottanta le ha permesso di tracciare anche una piccola storia dei media italiani, dalla nascita delle radio libere all’avvento delle televisioni private, e quindi di un certo modo di fare spettacolo in televisione. Cosa ci ha dato di buono e di cattivo quel periodo?
Di solito guardiamo agli anni Settanta come agli anni della contestazione e del terrorismo, e agli anni Ottanta come agli anni dell’edonismo. In realtà credo che ci sia stato un periodo, dal 77 a circa metà anni Ottanta, in cui le cose erano più mischiate di quello che crediamo. A me piacciono della storia questi momenti contraddittori, dove è ancora possibile di tutto, dove si vive con un piede in una realtà e con l’altro in un’altra. I periodi ambigui, e indecidibili. Quindi non so cosa ci sia di buono o di cattivo. C’è del buono e del cattivo sia nella contestazione che nelle tv commerciali. Io ho vissuto male gli anni Ottanta, ma forse ero solo un ragazzino timido che si è adeguato a un po' troppi trasferimenti in giro per l’Italia. Non eleverei la mia situazione a sistema. Ho scritto un libro “Tutto il mondo ha voglia di ballare” per capire un po' di più degli anni Ottanta, e per farlo ho creato una polifonia di voci. Forse è l’unico modo, spezzettarsi in tante voci e cercare di sentirle tutte, per non arrogarsi dei giudizi storici superficiali, e per entrare nella materia viva esistenziale e umana di un periodo.
Nella nota finale lei avverte che «Questo non è un romanzo per pedanti, che vengono volutamente depistati, ma per persone che si lasciano andare, che preferiscono scivolare», in quanto la storia si distacca in più punti dai fatti veramente accaduti. È stato difficile raggiungere un equilibrio tra verità e finzione?
In realtà non mi è mai interessato raggiungere un equilibrio tra verità e finzione. E soprattutto in questo romanzo. La verità è sempre finzione, anche quella che crediamo più vera. Non credo si possa uscire da questo paradosso, ma possiamo provare ad attraversarlo o aggiustarlo attraverso un senso sempre più aderente rispetto a quella cosa fuori da noi che chiamiamo realtà. Il sole senza ombra racconta un tentativo di attraversamento e di aderenza.
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Lei è uno dei curatori del festival letterario Pordenonelegge.it. Occuparsi della scrittura degli altri ha influenzato in qualche modo la sua?
Credo che chi scrive debba necessariamente occuparsi della scrittura altrui. Scriviamo perché leggiamo tanto, perché sentiamo il mondo delle storie come il “nostro” mondo. Per ogni romanzo che scrivo cerco però la lingua adatta, se parlo di fascismo mi calo nel delirio fascista, se scrivo di calcio mi calo dentro l’esperienza calcistica, se parlo di comicità metto a punto la lingua leggendo decine di biografie di comici, e guardando ore e ore di stand up comedian. Devo immergermi, e sentire quella lingua come una mia lingua naturale, solo dopo posso scrivere. Ogni storia richiede questa immedesimazione: in questo senso mi lascio influenzare, ma scelgo da cosa, mi calo dentro. E posso essere molto ossessivo. Fatte queste precisazioni sul metodo di lavoro, i libri di Pordenonelegge, che spesso sono novità librarie, non entrano di solito nel mio processo creativo, perché molto difficilmente fanno parte delle letture che ritengo necessarie per il particolarissimo romanzo che sto scrivendo.
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