Il sogno americano esiste ancora? Intervista a Francesco Costa
La terra dei sogni. È questa l’immagine che spesso si associa agli Stati Uniti d’America. Ma è davvero così?
Francesco Costa, in Questa è l’America (Mondadori), ricostruisce le battaglie storiche degli USA, quelle che hanno segnato intere generazioni, e traccia un quadro chiaro della situazione attuale del Paese.
Si scoprirà che non è tutto oro quel che luccica, e che gli Stati Uniti sono impegnati da lungo tempo nell’affrontare questioni tanto controverse quanto fondamentali nella costruzione dell’identità di uno Stato, nel campo dell’istruzione, della sanità, della politica, contro la dilagante dipendenza da farmaci.
Non mancano riferimenti a episodi capaci di ridefinire la stessa cultura statunitense, considerata da tutti un baluardo dei valori liberali e democratici, e dei quali abbiamo discusso con l’autore del libro.
La prima domanda è quasi d’obbligo: come sono andate le primarie nei giorni scorsi? Molti commentatori hanno parlato di un “fallimento del partito democratico”. Qual è la sua opinione in merito?
In Iowa c'è stato sicuramente un fallimento del Partito Democratico locale. Il paradosso: è stato un fallimento nato dal desiderio di maggior trasparenza. In Iowa si vota con l'appassionante ma arcaico e tortuoso sistema dei caucus, che già in passato aveva creato incertezze e polemiche. Nel tentativo di evitare infondate e autolesioniste teorie del complotto, come avvenuto tra i sostenitori di Sanders nel 2016, il partito aveva deciso di digitalizzare lo scrutinio attraverso un'app e diffondere tutti i dati intermedi, e non solo quello finale. Risultato: alcuni anziani militanti del partito in Iowa non sono riusciti a nemmeno a installare l'app, quelli che ci hanno provato non sono riusciti a usarla perché l'app aveva un difetto di programmazione, le linee telefoniche sono state intasate, i dati intermedi erano tra loro incoerenti e i risultati sono arrivati molto tardi e in modo incompleto. Le teorie del complotto sono arrivate più forti che mai mentre i candidati vincitori non hanno ottenuto tutta la spinta che di solito riceve chi esce positivamente dal voto in Iowa. Una frittata.
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Leggendo il Suo libro spesso si incontrano delle pillole di politica. Tra queste, molte sono incentrate su Donald Trump, la sua elezione e la gestione del potere. Quale analogia è possibile tracciare tra la storia recente americana e l’ascesa sempre più prepotente delle destre in Italia?
La possibilità d’imparare qualcosa dai paragoni tra la politica statunitense e quella italiana mi lascia sempre molto scettico: al contrario, credo che questi paragoni rischino di portarci fuori strada e risentono delle nostre opinioni e preferenze politiche locali, nonostante parliamo di contesti, culture e storie molto diverse e lontane. La vita e la cultura degli americani non ha molto a che vedere con quella degli italiani, e viceversa; così come il rapporto dei cittadini con il lavoro, con le tasse, con lo Stato e quindi anche con la politica. Per fare un esempio tra mille: se non si può parlare dell'ascesa di Trump senza discutere del rifiuto del politicamente corretto, in Italia siamo passati al rifiuto senza avere mai avuto il politicamente corretto, semplicemente come alibi per sdoganare comportamenti aggressivi, irrispettosi e violenti. Anzi, facciamone un altro: se non si può parlare dell'ascesa della destra in Italia senza parlare della nostra stagnazione economica ormai quasi trentennale, gli Stati Uniti dagli anni Novanta – con la durissima ma tutto sommato breve interruzione della crisi – crescono a tassi che noi possiamo solo sognare.
Nel libro cerco di spiegare perché l'ascesa di Trump sia una delle molte conseguenze di cambiamenti iniziati a volte anche venti o trent'anni fa, in America: un esito non casuale di un percorso che ha ragioni precise e precisamente americane. La destra italiana a volte riprende temi e parole chiave della destra americana perché noi italiani copiamo sempre moltissimo dagli americani – dal “Contratto con gli italiani” del 1994 al “Si può fare” del 2008 al “Prima gli italiani” del 2018 – e ci sono indubbiamente delle dicotomie che oggi si ripetono in molti paesi del mondo (società aperta contro società chiusa, centri urbani contro zone rurali, persone istruite contro persone meno istruite), ma credo che i due fenomeni abbiano origini e ragioni diverse.
Uno dei capitoli più interessanti si concentra sulle debolezze degli Stati Uniti d’America. A tal proposito, Lei utilizza il concetto di “eclissi”, definendola come una «sensazione di perenne precarietà e paura, che ha soffocato l’identità stessa del Paese, il suo ottimismo proverbiale e incrollabile, la sua fiducia nel futuro». Com’è cambiata nel tempo, alla luce di tutti gli eventi che ha raccontato, la visione di questo Paese per chi lo vive? Crede che sia iniziato il declino del sogno americano? Quali traguardi può ancora raggiungere?
Diciamo che tutte le storie del libro girano attorno a questa domanda. Se gli Stati Uniti sono in declino, è una forma di declino molto particolare: un declino in cui il tasso di disoccupazione è ai minimi storici, l'economia cresce e produce innovazioni dal gigantesco impatto globale, le università sfornano premi Nobel e il predominio militare e culturale rimane intatto. Se per sogno americano intendiamo la possibilità di riscattarsi, di scalare la società, addirittura di diventare americano arrivando da fuori, allora il sogno americano esiste ancora: ma farcela è diventato molto più complicato, e soprattutto è diventato molto più spietato il trattamento verso chi ne resta escluso. Le rendite di posizione esistono negli Stati Uniti come altrove, ma negli Stati Uniti se hai talento e lavori sodo le cose possono ancora andarti bene più facilmente che altrove; se le cose ti vanno male, però, le conseguenze possono essere estreme e dolorose come in nessun altro paese sviluppato – e lo diventano ogni giorno di più, grazie a un sistema politico particolarmente disfunzionale. Così facendo una nuova categoria di traguardi è diventata raggiungibile dagli americani: quella che riguarda le tragedie. I suicidi, le morti per overdose, l'obesità, la morte di parto, gli incendi devastanti, l'abuso di farmaci.
Da diversi anni, grazie ai social, la politica ha trovato una naturale cassa di risonanza. Tutti parlano delle vicende del proprio Paese, nel bene e nel male. In Questa è l’America viene preso in esame anche tale aspetto, soffermandosi molto sull’attuale inasprimento dei toni nella politica. Come crede che si sia trasformato, oggi, questo rapporto tra due mondi così diversi? E come potrà evolversi?
Ecco, questo è forse uno degli aspetti sui quali qualche vera somiglianza tra Stati Uniti ed Europa c'è, probabilmente per la natura intrinsecamente globale di questi strumenti. Dopo una prima fase di interessamento e curiosità rivolti quasi esclusivamente all'uso dei social media per organizzare attività politiche e raccogliere fondi, la politica ha trovato uno scopo molto più immediato, semplice e redditizio, sfruttando i social media per colmare gli spazi vuoti lasciati dal declino della televisione e garantirsi una presenza costante nel dibattito pubblico, accentuare la deleteria retorica dei politici visti come “uno di noi”, per azzerare la complessità della società e colpire i propri avversari con l'aggressività caotica del branco. Non so come potrà evolversi, ma una cosa è già evidente: per quanto pensi di padroneggiare e sfruttare a suo vantaggio questo strumento, la politica ne è evidentemente già vittima. Per ogni volta che un politico dice o non dice, decide o non decide qualcosa perché incalzato direttamente dai social media (e capita sempre più spesso), ci sono innumerevoli volte in cui qualcosa succede o non succede a causa della prevista eventuale e minacciosa reazione delle persone sui social media.
Lei ha effettuato un’analisi politica sul medio/lungo periodo molto interessante circa il funzionamento e il deterioramento delle istituzioni degli Stati Uniti d’America. A suo avviso si tratta di un problema strutturale, o le cose potranno migliorare?
È un problema strutturale ed è frutto del fatto che negli Stati Uniti le regole del gioco non sono praticamente mai cambiate. Se in Italia le leggi elettorali cambiano con la frequenza delle stagioni, e le riforme costituzionali sono sull'agenda di ogni governo da almeno venticinque anni, negli Stati Uniti il funzionamento delle istituzioni è scolpito nella pietra. Gli Stati Uniti hanno persino combattuto una guerra civile di secessione senza un colpo di stato, senza chiudere il Parlamento, senza sospendere le regolari elezioni. L'assetto istituzionale statunitense è ancora valido, ma a fronte dei grandi cambiamenti della società e della politica avrebbe bisogno di qualche aggiustamento sostanziale. Una legge sull'uso del denaro in politica e una che affidi a un'autorità indipendente il ridisegno dei collegi avrebbero già da sole un enorme impatto.
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Vorrei approfondire il concetto di “compromesso”, che lei presenta come una delle debolezze della politica americana di questi tempi. Qual è la sua visione per l’America del futuro?
Capire il presente è già abbastanza difficile, prevedere il futuro è proibitivo. Ma sono convinto – e nel libro cerco di spiegarne le ragioni – che l'America sia davanti a un bivio. È un bivio a cui si è arrivati attraverso fenomeni che hanno provocato spaccature nettissime nella società: tra le città e le zone rurali, tra i bianchi e tra i non bianchi, tra gli stati del nord e quelli del sud. Queste spaccature hanno logorato lo spirito e l'identità nazionale, soprattutto da quando la politica ha imparato a sfruttarle: e sfruttandole non solo le ha accentuate ma le ha rese inesorabili, ci ha costruito sopra carriere, business, profitti, routine. Per questo il bivio di cui parlo non è un bivio tra bene e male, né un bivio tra crescita e declino intesi in senso tradizionale: è il bivio tra restare un paese speciale e diventare un paese normale, per quanto ricco, influente, ammirato e potente. Non sarà la rielezione o meno di Donald Trump a determinare questa scelta, anche se in un modo o nell'altro assesterà un colpo dalle grandi conseguenze.
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Per la prima foto, copyright: Raúl Nájera su Unsplash.
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