“Il silenzio che rimane” di Matteo Ferrario, in bilico tra dignità e fuga
Il silenzio che rimane è il nuovo romanzo di Matteo Ferrario, che dopo Dammi tutto il tuo male (2017) torna a pubblicare per HarperCollins Italia; Ferrario è infatti il primo scrittore italiano a essere entrato nel catalogo della casa editrice. In questo libro vediamo rinsaldarsi e svilupparsi temi cari all’autore: la solitudine dell’uomo che perde la propria compagna e il tentativo di riassetto dell’asse della propria vita su quello del resto del mondo. Un’operazione che spesso non trova la misura esatta dentro cui inserirsi, nel ruotare dell’esistenza, e consegna Davide, il protagonista, a una forza centripeta che lo espelle dal (micro)cosmo a cui fino a quel momento si è afferrato, per scagliarlo nel più siderale dei silenzi.
Una coppia del XXI secolo, apparentemente collaudata, si trova, un pomeriggio d’agosto, ad affrontare il caso, allitterato in caos, che spariglia le carte sul tavolo da gioco delle loro vite e si presenta, sotto le sembianze di un giovanissimo e disperato sequestratore, nella caffetteria del centro di Milano in cui i due si trovano. Un imprevisto che sovvertirà del tutto l’atmosfera pigra di fine estate e le loro vite, obbligandoli a misurare se stessi e l’amore che provano l’uno per l’altra con la capacità di resistenza, non solo agli eventi ma anche all’opportunismo e all’incoscienza degli altri avventori del caffè. Una situazione estrema, un gruppo di sconosciuti che si trasformano, in pochi secondi e nel luogo più banale, in indelebili compagni di destino; indelebili anche quando, per due dei sequestrati, il destino prenderà una piega diversa da quello degli altri.
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Il romanzo di Ferrario descrive la metamorfosi della persona in ostaggio; ostaggio non solo degli eventi ma anche e soprattutto della propria coscienza, del passato e del tempo dei “se”. E della coscienza degli altri, nelle cui pieghe è impossibile insinuarsi se non procedendo a tentoni e imbarcandosi in un viaggio di sola andata. Il racconto tocca l’intero atlante delle emozioni umane perché uno dei protagonisti, Davide, che del silenzioso itinerario è la voce narrante, dopo l’orrore dei fatti della caffetteria è costretto a filtrare incessantemente l’accaduto attraverso il prisma infinito dei media e dei social, che di quell’orrore si nutrono. Il tentativo di assopire i dolori più intimi, all’epoca della continua esposizione pubblica, è una fatica di Sisifo, perché ci remano contro Facebook, i programmi della tv spazzatura, gli influencer, i blogger, i rapper e tutta «una catena umana di idiozia». In mezzo al vociare di tanti, per quel silenzio che il titolo del romanzo sottolinea, pare non possa rimanere spazio. Sì, tra le emozioni possibili, l’apatia, a braccetto con la cybercondria e il desiderio di scomparire, che è il vero motore del romanzo.
Su binari paralleli scorrono però anche la paranoia (che si cristallizza nel momento in cui il protagonista acquisisce la consapevolezza dell’odio, e dell’esistenza di un interruttore interno che potrebbe accenderlo), e il risentimento, un sentimento che, per tradizione, è privo di voce e trova cibo appetitoso proprio nella cripta del silenzio. Basta poi un nonnulla per far divampare in Davide anche rimorso, rimpianto e rimprovero, le tre “r” che accompagnano la perdita di ogni persona cara: il ritrovamento di un lungo capello rosso, ancora impigliato su una seggiola a un anno di distanza dai fatti; la sirena di un’ambulanza, che non rappresenta pericolo ma apprensione amorosa, o il ricordo di un ridicolo sospetto di tradimento. Malinconia, spaesamento e vulnerabilità si stendono infine sul racconto come il lenzuolo con cui gli ebrei osservanti coprono gli specchi mentre dura il lutto: non guardarsi è un modo di esercitare la necessaria pietà verso se stessi, oltre che una forma di rispetto. Il gesto di coprire è al tempo stesso denuncia aperta, in questo romanzo, del fatto che quel lutto concreto è in realtà la somma di altri lutti, la madre (e il padre) di tutte le perdite.
Trova spazio, tra le righe, anche la questione dell’eroismo opposto all’egoismo, e quando gli spari sono cessati, Ferrario ci guida tra le macerie dell’animo, a scoprire cosa provano “i salvati”, come custodiscono la memoria dei “sommersi” oppure come se la giocano in un post su Facebook, in un tweet. «Eravamo tutti bestie allo stesso modo e ci meritavamo il male», sentenzia Davide, quando quasi tutto era ormai compiuto, nella storia. L’anello debole nella catena di un romanzo pensato per setacciare la nuova filiera attraverso cui elaboriamo le emozioni nel nostro tempo sta però proprio nella riproduzione a volte pedissequa dei contenuti che ci scivolano dalle dita ogni volta che incrociamo una tastiera e una connessione Wi-Fi. Rituali per scioccare, per lasciare il segno, che in realtà finiscono per aumentare lo spessore del nostro carapace sopra ciò che un tempo era la sensibilità umana.
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Il dialogo tra sensibilità ferite, tra diversi ranghi di sopravvissuti, in qualsiasi modo li si voglia giudicare, si rivela, alla fine del romanzo, impossibile. Ed è qui che il lettore si trova a valutare la scelta ultima di Davide: è codardia e fuga, oppure, nella penna di Matteo Ferrario Il silenzio che rimane è l’unica forma praticabile di dignità?
Per la prima foto, copyright: Amy Velazquez su Unsplash.
Per la terza foto di Ginevra Massari, la fonte è qui.
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