Il romanzo: non solo intrattenimento, ma anche funzione morale
Articolo di Roberto Morra.
La fiaba ha una funzione per la formazione del bambino. Se dimostrassimo che la fiaba è un’antenata del romanzo, analizzando la funzione dell’una potremmo capire la funzione dell’altro.
Bettelheim ci fornisce uno studio dettagliato della funzione della fiaba ne Il mondo incantato[1]. La fiaba, forma letteraria rivolta innanzitutto ai bambini, è ciò che può fornire nuove dimensioni alla loro immaginazione. Le fiabe prese in considerazione sono quelle che si possono definire “racconti di magia”, cioè quelle in cui azioni identiche vengono attribuite sia a uomini che a oggetti o animali (quelle a cui ci riferiamo sono le fiabe che tutti conosciamo, come Cappuccetto Rosso e Biancaneve). Il processo di crescita è caratterizzato da problemi psicologici che devono essere affrontati a livello conscio e anche inconscio, luogo, questo, con cui prendere familiarità, ma non attraverso un approccio razionale, che non è proprio del bambino. Le fiabe, suggerendo delle immagini, aiutano il bambino ad affrontare i suoi desideri inconsci, così da raggiungere una coscienza più matura per civilizzare le pressioni caotiche dell’inconscio. Inoltre le fiabe recano con sé un messaggio fondamentale: mostrano che le difficoltà sono una parte intrinseca dell’esperienza umana e che vanno affrontate per uscirne vittoriosi. Pensiamo all’eroe, che nella fiaba raggiunge la felicità sulla terra dopo tante tribolazioni, al contrario del mito, racconto breve, fonte da cui trae origine la fiaba ma che non aveva funzione sociale, in cui anche c’è un eroe che però raggiunge la felicità in cielo. Il mito aveva funzione di racconto, soprattutto, che poi nei popoli degli stati civilizzati serve a giustificare il potere delle classi dominanti. Attraverso i personaggi della storia, le fiabe aiutano il bambino a esteriorizzare il suo inconscio, fornendogli la possibilità di controllarlo.
Le fiabe furono prodotte prima dell’avvento delle società di massa e sono diretta espressione di miti, istituzioni, riti e culti religiosi: in un mondo non ancora civilizzato, questi elementi avevano un ruolo importantissimo nella vita dell’uomo comune e non. Le religioni sono da considerarsi proprio quegli elementi di transizione che uniscono vita reale e fiaba (per esempio i mezzi di trasporto dell’eroe fiabesco sono legati direttamente al popolo da cui la fiaba è prodotta, ad esempio agricolo o cacciatore, e rappresentano la peregrinazione dell’anima nel mondo dei defunti). La fiaba si differenzia dal racconto mitologico perché si rivolge al mondo interiore dell’uomo.
Quando il tipo di vita sociale cambia, ecco che le produzioni letterarie mutano a loro volta e quindi dalla fiaba si ha un racconto che poi diverrà il romanzo, che conserva la particolarità di rivolgersi al mondo interiore dell’uomo. È la vita quotidiana di queste società che determina questo passaggio, perché essa pian piano soppianta i personaggi fiabeschi. Perrault, autore di fiabe del 1600, può rappresentare proprio l’anello che congiunge questi due generi. Egli è un precursore del romanzo perché crea una poetica fondata su un interesse, una sensibilità e su un utile morale da trasmettere al lettore per mezzo di storie commoventi e popolari. L’accostamento tra fiaba e romanzo è reso possibile dal fatto che in Perrault troviamo già l’uomo che esce da un regime monarchico e che vuol parlare con la voce del popolo, anche se le sue fiabe erano destinate all’intrattenimento della corte del re di Francia. Ciò che è rilevante è l’assenza del regime monarchico, se non come vaga presenza destinata più all’ambientazione che ad altro. La letteratura influisce sulla nostra vita e nella forma della fiaba aiuta il bambino. Nel caso del romanzo, che contrariamente alla fiaba è dedicato a un pubblico adulto, il lettore può trovare un rifugio dalla vita, per sentirsi realizzato nelle proprie aspirazioni, felice e completo. Che i destinatari delle fiabe fossero i bambini è dovuto al fatto che esse erano una produzione letteraria tramandata oralmente, almeno alle loro prime comparse. È l’entrata in gioco della scrittura che cambia il tipo di pubblico a cui la narrazione è destinata. Seppure cambia il modo della narrazione, orale o scritta, la funzione del racconto rimane intatta e i processi a cui può dar vita restano invariati, anche se con la scrittura e lo sviluppo delle società civili, gli elementi che caratterizzano le narrazioni scritte sono vari e diversi.
Ma un importante fenomeno psicologico di base, che poi è quello che aiuta il bambino, è l’immedesimazione. Questa è resa possibile grazie al fatto che, al contrario del mito, si parla di persone comuni. Ogni mito è la storia di un eroe particolare, mentre la fiaba parla di persone simili a ciascuno di noi, e anche quando gli eroi della fiaba ricevono un nome, come in Hansel e Gretel, questo è talmente comune da rendere generico il personaggio stesso, permettendo l’identificazione sia a un ragazzo che a una ragazza. Questo carattere di anonimia del romanzo, a partire dal ’Settecento, è l’elemento che distingue il romanzo dalle produzioni letterarie antecedenti: al contrario dei libellisti del secolo precedente, il romanzo forniva sì esempi, ma senza prenderli dalla realtà, non facendo quindi riferimento a un’entità extratestuale ben determinata. Le prime produzioni letterarie di questo tipo furono di nascita inglese, perché in Inghilterra era nata, prima che nelle altre nazioni, una classe borghese che amava leggere di se stessa, preferendo la plausibilità alla fantasia. Il romanzo comincia a istituire dispositivi di identificazione simpatetica, ma anche empatica, con l’eroe del testo.
Un importante processo psicologico che può attivarsi, durante la lettura di un romanzo, infatti, è quello dell’empatia. Questo processo attesta l’importanza della letteratura nella formazione degli individui e ha un legame diretto con l’azione morale. Il processo dell’empatia con l’opera d’arte, nel caso specifico col romanzo e col suo personaggio, è un processo di comprensione di ciò che ci sta di fronte. Che fosse un meccanismo che nasce in un rapporto di tipo estetico era stato già teorizzato dal filosofo dell’arte Friederich Theodor Vischer[2], per il quale l’empatia era il fenomeno di attribuzione a qualcosa che si trova fuori di noi delle espressioni della nostra interiorità. Ora, chiedendoci come l’empatia avviene tra uomo e uomo, potremo applicarla anche a ciò che avviene tra lettore e personaggio.
Husserl concepì l’empatia come quel fenomeno alla base di tutte le relazioni intersoggettive[3]. L’empatia è la comprensione del corpo dell’altro non solo come dato fisico, ma come qualcosa dotato di significato, perché dotato di una vita psichica. Comprendere le azioni e le intenzioni dell’altro è possibile grazie al vivere in un mondo di significati comuni. E la cultura rappresenta una totalità di significati comuni cui facciamo riferimento. Dunque, comprendo il significato delle azioni, parole e manifestazioni dell’altro perché si situano all’interno di un mondo nel quale io stesso vivo e in rapporto al quale acquistano un significato. A questo si aggiunge che comprendere l’altro significa anche comprendere la correlazione tra una certa situazione, che è dotata per me come per lui di un certo senso, e le emozioni connesse. Quindi la comprensione dell’altro comporta una comprensione della situazione in cui l’altro si trova e della possibilità che si possano provare certe emozioni: questa dell’altro rende possibile anche una migliore comprensione di me. Infatti sull’altro posso vedere dei segni di emozioni, come l’arrossire, che su di me non posso vedere direttamente, e solo comprendendo la situazione in cui si trova l’altro potrò ascrivere a me stesso quella reazione nel caso in cui mi trovi in una situazione simile. Ciò che comprendiamo sono i loro stati d’animo. Anche in questo caso, quello a cui siamo rimandati è l’essere in un mondo comune, e ad aree del cervello caratterizzate da proprietà specchio: degli esperimenti hanno dimostrato che la comprensione degli stati emotivi altrui è determinata da un meccanismo di neuroni specchio che codificherebbe l’esperienza sensoriale, come l’osservazione delle espressioni altrui, direttamente in esperienza emozionale.
La relazione sociale inizia quando ci rapportiamo all’altro e l’empatia rientra nel costituirsi dell’interazione sociale perché è un modo per rapportarsi all’altro, soffrendo o gioendo quando l’altro soffre o gioisce, senza gioire o soffrire per le sue stesse ragioni. Abbiamo un’esperienza che nasce nell’altro, e un’empatia che accade nella mia: l’empatia è quindi un’apertura verso l’altro, alla sua situazione, all’interno di un mondo comune.
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Le emozioni, che costituiscono l’individuo e ne vincolano l’azione, e letteratura sono strettamente legate tra loro perché le opere di letteratura possono effettivamente portarci a provare delle emozioni e attivare il meccanismo dell’empatia. Dopotutto abbiamo visto che i primi romanzi riproducevano lo stile di vita e le caratteristiche di una classe sociale che stava acquisendo una certa importanza. Il romanzo ci permette di formare immagini, rappresentare così persone ed eventi, e immaginare noi stessi al posto di qualcun altro; questo meccanismo fa sì che non è necessario che le persone o gli eventi narrati siano presenti per determinare un affetto. Questi non sono propriamente dei meccanismi di identificazione, perché soffriamo per una persona rendendoci conto di cosa voglia dire perdere qualcosa di importante, anche se quella persona per la quale proviamo dispiacere ha perso qualcosa che per noi non riveste la stessa importanza che ha per lei.
La creazione del personaggio è una delle principali difficoltà dello scrittore di narrativa: nel raccontare, si viene messi di fronte a questioni riguardanti l’oggettività, l’imparzialità, la giustizia e la verità. Al lettore è data la possibilità di seguire o meno i percorsi emotivi tracciati dall’autore. All’inizio della lettura ci troviamo molto istintivamente a prendere una posizione. La lettura ci offre il piacere della libertà di esprimere un giudizio morale nei confronti dell’opera narrativa. La letteratura è impregnata di morale, in cui sono immersi i personaggi fittizi. Qualsiasi arte, per essere esercitata, implica una forma di disciplina morale, poiché si fa di lotta con la fantasia e indulgenza verso di sé. La particolare dimensione morale della narrativa consiste nel fatto che tratta delle persone e spesso affronta il tema del bene e del male, anche se in maniera non esplicita. Data questa ricchezza di tematiche e dalla posizione che prima l’autore e poi noi prendiamo nei confronti dei personaggi della storia, possiamo dire che la letteratura, e il romanzo in particolare, è molto vicina alla morale.
La maggior parte delle persone vede la moralità come annessa alla sostanza del mondo e a una struttura più ampia della realtà: religiosa, politica o storica. Si potrebbe correre un rischio facendolo, perché si potrebbe trasformare la propria moralità in un dogma, diventando intolleranti verso i valori degli altri e smettendo di riflettere sui propri. Con la considerazione della morale come un fatto su cui non è necessario riflettere, la condotta morale degenererebbe. Non si afferma che sia sbagliato annettere la moralità a una trascendenza, ma che il restare ancorati a una simile credenza, senza ulteriore critica, è pericoloso, sia socialmente sia moralmente.
Secondo Iris Murdoch, che ha studiato il rapporto tra arte e morale, la moralità e la bontà sono da considerarsi una forma di realismo, perché non ci è possibile pensare ad un uomo veramente buono come in un sogno. Un uomo buono deve necessariamente conoscere alcune cose del mondo esterno che lo circonda, come la presenza di altri individui. Ecco perché un ego egoistico deve essere educato, perché ci impedirebbe di vedere cosa è altro da noi e può trovare il modo di sfuggire i meccanismi dell’empatia. E la grande funzione che un romanzo può ricoprire è quella di farci vedere ciò che è altro da noi: se un significato morale può essere riscoperto nella natura, l’arte rappresenta qualcosa di più complesso da comprendere ma più accessibile per l’uomo perché prodotta dall’uomo stesso, ed è per questo che è più edificante. Ed è forse l’arte non figurativa, la letteratura di cui sopra, che sembra avere qualcosa a che fare di più con la virtù, dato che ha a che fare da vicino con le faccende umane. L’arte squarcia il velo e ci fa vedere nel modo giusto. La nostra immaginazione si distinguerà dalla fantasia per congiungersi al mondo, non per estraniarci da esso.
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