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Il riscatto di una “plain jane”. “Jane Seymour. La regina più amata” di Alison Weir

Il riscatto di una “plain jane”. “Jane Seymour. La regina più amata” di Alison WeirEsiste un’espressione orribile in inglese, usata per descrivere la ragazza “media”, quella insignificante, che si confonde tra la folla e non ha niente di speciale. Stiamo parlando del termine “plain jane” che gioca sull’assonanza tra i due termini e che apparentemente risale a un fumetto del primo Novecento. Inutile sottolineare quanto sia denigratorio e superficiale associare questa espressione a un essere umano. Cosa c’è di più superficiale del far corrispondere l’aspetto esteriore di una persona alla sua identità? Nulla, ma a quanto pare non riusciamo a smettere di farlo ed è proprio la Storia a darcene testimonianza.

Volete un esempio? Vi accontentiamo subito presentandovi una figura a lungo descritta proprio come una “plain Jane” – scritta questa volta con la lettera maiuscola. Stiamo parlando di Jane Seymour, regina di Inghilterra per soli diciotto mesi e moglie dell’arcinoto Enrico VIII Tudor. Le cronache, e i successivi saggi e romanzi storici, ce la descrivono come “mite e insignificante”, per usare il nostro termine, quindi, una vera “plain jane”. Fortunatamente, però, c’è chi non si è fatto ingannare ed ecco che entra in gioco Alison Weir, protagonista di questo articolo e autrice di Jane Seymour. La regina più amata.

Scrittrice e storica affermata, Weir ha all’attivo numerose opere dedicate alle più importanti figure della Storia britannica. Tra queste, le opere incentrate sulla dinastia Tudor e le sue protagoniste femminili – intitolata “Six Tudor Queens” in lingua originale – occupano un particolare rilievo. Jane Seymor. La regina più amata è il terzo libro di questa intrigante serie che ha riscosso un discreto successo Oltremanica. In Italia è stato pubblicato da Neri Pozza nell’ottobre del 2020, sulla scia del successo di altri romanzi di Weir, come Caterina D’Aragona. La vera regina, Anna Bolena. L’ossessione del re, L’innocente e Lady Elizabeth. La traduzione è affidata a Maddalena Togliani che fa un lavoro eccellente nel riportare la fluidità della prosa di Weir.

 

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Essere una storica e al contempo decidere di dedicarsi alla prosa può rivelarsi un’arma a doppio taglio. Il rischio è sempre quello di lasciarsi influenzare troppo dalla vicenda – e quindi inserire troppi elementi “romanzeschi” – o, all’opposto, di dare troppa rilevanza a fatti e dettagli che possono essere interessantissimi e importantissimi per uno storico, ma che per il lettore diventano tediosi e difficili da digerire. È un equilibrio delicato ed estremamente difficile da mantenere. Si pensi, ad esempio, a Philippa Gregory, altra esponente significativa dell’“ibrido” scrittore/storico e spesso vittima di accuse da parte del mondo accademico perché si concede troppe libertà nel raccontare vicende e personaggi storici.

Il riscatto di una “plain jane”. “Jane Seymour. La regina più amata” di Alison Weir

Non è il caso, fortunatamente, di Alison Weir che riesce a compiere un vero e proprio miracolo nell’arricchire la narrazione di informazioni su contesto storico, personaggi e battaglie senza che il lettore quasi se ne renda conto. Ed ecco che, a fine romanzo, ci accorgiamo di sapere molte più cose sul tardo ‘500 inglese di quanto mai avremmo potuto immaginare. Capita, dunque, di leggere intere pagine sull’abbigliamento alla corte dei Tudor con la stessa facilità con cui leggeremmo, ad esempio, le barzellette sulla Settimana Enigmistica. E con molto più interesse, oltretutto.

Ma perché i Tudor? E, soprattutto, perché Jane Seymour, se è stata davvero così insignificante? Occorre fare una piccola premessa, portate pazienza. Enrico VIII è stato il monarca più celebre della dinastia Tudor, non solo per la sua mole imponente, ma anche perché è stato il responsabile di uno degli scismi più importanti della Storia. A causa sua – o grazie a lui, dipende dalle vostre simpatie religiose – oggi la Chiesa cattolica e la Chiesa anglicana sono due entità separate. Perché lo ha fatto? Beh, questa è un’altra storia, ma ci basti sapere che molte delle sue scelte politiche e religiose hanno risonanza ancora oggi.

Il suo regno, e poi quello di sua figlia Elisabetta I, vengono universalmente riconosciuti come il periodo in cui il Rinascimento giunse finalmente in Inghilterra. Un’epoca di grande sviluppo artistico, culturale ed economico, ma anche di repressioni e contraddizioni.

Un’epoca in cui sopravvivere non era né semplice né scontato, specialmente se si aveva la sfortuna di nascere donna. Esistono tonnellate di romanzi e di saggi storici su questo argomento ed è facile capire il perché, soprattutto se si tira in ballo Enrico VIII. Esiste, infatti, un altro motivo per cui questo mirabile sovrano rimarrà per sempre indelebile nella Storia: le sue otto mogli.

Trentotto anni di regno e otto consorti diverse, nessuna delle quali ebbe vita facile. Alcune di loro sono divenute vere e proprie eroine per il femminismo, come la seconda, la celebre e sfortunata Anna Bolena, altre invece sono finite nel dimenticatoio. Tra queste troviamo la nostra Jane Seymour, terza adoratissima moglie, come ci ricorda anche il titolo del romanzo di cui abbiamo parlato, e che è riuscita a fare l’unica cosa che per Enrico contava veramente: dargli un erede maschio.

Jane Seymour sposa Enrico il 30 maggio 1536, appena dieci giorni dopo l’esecuzione di Anna Bolena – condannata per adulterio, stregoneria e incesto sulla carta, quando, ormai lo sappiamo, venne punita per la sua “incapacità” di dare un figlio maschio al re. Jane non verrà mai incoronata, resterà al trono solo per pochi mesi e morirà pochi giorni dopo aver dato alla luce Edward, l’erede tanto desiderato; eppure, si guadagnerà la fama di “regina più amata” tanto che, alla sua morte nel 1547, Enrico chiederà di essere sepolto insieme a lei nella St. George’s Chapel a Windsor.

Il riscatto di una “plain jane”. “Jane Seymour. La regina più amata” di Alison Weir

Ma se Jane è stata così fondamentale (e così amata), come mai si è scritto così poco su di lei? La sua vita è stata, per certi aspetti inusuale, se si pensa poi a come è finita. Come ci racconta Weir nel suo romanzo, Jane ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza tranquilla a Wulf Hall – o Wolf Hall, come sceglie di chiamarlo Hilary Mantelnei suoi romanzi su Thomas Cromwell – scossa soltanto dal presunto desiderio di prendere i voti e dallo scandalo famigliare che ha coinvolto suo padre, il fratello Edward e la moglie di lui. Poi l’arrivo a corte come dama di Caterina D’Aragona e poi di Anna, finché, a ventinove anni – tardissimo per quei tempi – il matrimonio con nientemeno che il re d’Inghilterra. Senza contare, poi, il trauma dell’esecuzione di Anna Bolena, il rapporto con le figlie del re, le ribellioni del Nord e le conseguenze di uno scisma che stava trasformando radicalmente una società dall’oggi al domani. Fino ad arrivare alla gravidanza e poi alla morte, noi viviamo tutto questo attraverso gli occhi di Jane eppure riusciamo, allo stesso tempo, a discostarcene.

La Storia, lo abbiamo già detto, non è stata molto clemente con la povera Jane e anche dopo aver letto questo romanzo ci viene facile capire il perché. Non ha certo aiutato il fatto che, una volta sposata, Jane abbia scelto come motto “Bound to obey and serve”, ovvero, “Tenuta a obbedire e a servire”. Non regge il confronto, certo, con la forza di Caterina d’Aragona né con l’irriverenza e la ribellione di Anna Bolena. Weir è molto abile nel farcelo capire ma, allo stesso tempo, è l’unica a fornirci un ritratto di Jane in cui, forse per la prima volta nella storia della letteratura, emerge la figura di una donna complessa e non esente da contraddizioni, invece della santa svampita e ingenua a cui eravamo abituati. C’è chi ritiene, ad esempio, che Jane non sia da considerarsi del tutto innocente ed estranea agli eventi che hanno portato alla caduta di Anna Bolena. Weir ne è perfettamente consapevole e gioca su questo aspetto, facendo in modo che la figura (o, se vogliamo, lo spettro) di Anna non abbandoni mai Jane, nemmeno dopo la sua morte.

 

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Il titolo originale del romanzo è infatti “Jane Seymour. The haunted queen”, ovvero, “la regina inquieta”. Non sono chiare le ragioni che hanno spinto Maddalena Togliani a scegliere un titolo decisamente più accomodante per la sua traduzione. Se vogliamo dirla tutta, in realtà, il termine “haunted” indica anche qualcosa di più sinistro, in quanto implica una presenza spettrale – una delle traduzioni di “haunted”, infatti, è “tormentata, infestata”, e se si legge il romanzo tutto questo ha perfettamente senso. Tutto è estremamente credibile e verosimile: tra le pagine di Alison Weir, Jane diventa finalmente una donna vera, un personaggio con pregi e difetti che sa commuoversi (e farci commuovere), ma anche tormentarsi fino alla soglia dell’irrazionalità.

Possiamo considerare Jane Seymour. La regina più amata una piccola rivincita delle “plain jane”? Crediamo proprio di sì e ci auguriamo che questo romanzo possa incoraggiare nuove ricerche su un personaggio che non ha nulla da invidiare ai suoi contemporanei ben più noti.

Tra gli studenti inglesi spopola da tempo immemore una orecchiabile cantilena che consente loro di ricordare le sorti delle sfortunate consorti dell’impetuoso Enrico: “Divorced, beheaded and died. Divorced, beheaded, survived!!” – letteralmente – “Divorziata, decapitata e deceduta. Divorziata, decapitata, sopravvissuta!!”. Non certo il più lusinghiero degli stornelli, se si tratta di onorare la memoria di queste sovrane. Fortuna che esistono i romanzi storici, allora, e, soprattutto, menomale che esiste Alison Weir.


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