Il racconto di un uomo e del suo fiume. “Sudeste” di Haroldo Conti
Sudeste, tradotto da Marino Magliani e pubblicato da Exorma edizioni, è considerato uno dei migliori prodotti letterari di Haroldo Conti, rappresentante della generación de Contorno, scomparso nel maggio del 1976 in seguito al golpe militare in Argentina. Nonostante il suo nome si sia aggiunto alla lunga lista dei desaparecidos, l’eco del suo romanzo continua a risuonare nel Delta del fiume Paraná, dove vive anche Boga, il protagonista della storia.
Il romanzo però non racconterà rocambolesche avventure di marinai e leggende locali, né tantomeno ha la superbia di una trama aggrovigliata e complessa o si fa esplicitamente portavoce di battaglie ecologiste. In realtà nella sua – a tratti cruda – semplicità vuole parlare del rapporto primigenio e autentico tra uomo e natura, una natura ben precisa, quella argentina, che lo scrittore riesce a tramutare in cristalline sfumature d’animo che accompagneranno il vagare silenzioso e solitario di Boga, un tagliatore di giunchi qualunque. In seguito alla morte del Viejo decide infatti di intraprendere un viaggio sul fiume, in compagnia soltanto di una barca mal ridotta e con il sostentamento di qualche galletta e di pesce dal sapore indefinito; non dobbiamo stupirci se viene evidenziato il fatto che «Tutti sanno che i giunchi più si tagliano più ricrescono», così come Boga ha cercato fino a quel momento di stroncare quella sua necessità interiore di partire e allontanarsi alla scoperta di nuovi paesaggi, puntualmente questa voglia ardeva dentro di lui, al pari dello sparto tagliato che, inesorabilmente, ricresce. Basti poi pensare che il giunco è una pianta dal profondo significato allegorico; utilizzata da Dante per purificarsi nel primo canto del Purgatorio, è per molti critici simbolo dell’umiltà con cui anche il nostro protagonista attraverserà il fiume. Boga ha infatti la sensazione che «In quel posto non sarebbe rimasto che il silenzio e una paciosa tristezza. Qualcosa, un velo invisibile, separava irrimediabilmente le cose e gli uomini» e percepisce il richiamo all’indagine più pura sui rapporti che legano o separano l’uomo a quelle terre, sentendo il richiamo di quelle isole intorno a lui sempre più forte: così sul far dell’estate realizza questo suo sogno.
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Subito viene colpito proprio dal fiume al quale ormai è abituato, che sembra avversare ogni attività umana ma che invece ora gli pare fatto quasi su misura, come se volesse favorire il suo passaggio e le luci, che d’inverno erano così lontane, d’un tratto avvolgono completamente le isole circostanti, a tal punto che i raggi, sbocciando dall’entroterra e spingendosi fino in fuori, rendono le isole delle vaghe forme luminose; «E poi c’è la notte. La brezza del mattino è fresca e fa rabbrividire i pescatori. Viene dal fiume e piomba sulle isole. Allora comincia la frenesia, la smania nel sangue e l’ansia che spinge l’uomo verso l’orizzonte.» Con l’avanzare dei giorni tutte le percezioni si amplificano, tra l’aria diafana estiva che si trasformava in un sonoro ronzio e la silenziosa solitudine notturna, Boga sente che tutto improvvisamente converge su di lui, su quella vita che fino in quel momento sembrava scandita da insensati ritmi meccanici, quasi come se percepisse quello che Kundera ha chiamato “insostenibile leggerezza dell’essere”.
Nonostante Boga non sia obbligato a ricercare la profonda raison d’etre del proprio io, la totale solitudine che lo accompagna lo spinge a voler ricercare il significato che lega l’uomo alle proprie scelte, ai propri atteggiamenti, alla ciclicità e alla necessità della natura, andando alla ricerca della sensatezza interiore. Si sente per tanto il centro di un micro-cosmo così piccolo eppure in grado di sollevare moti dell’animo impensabili, coadiuvati dal fiume che ora dà l’impressione di essere malinconico. Quello specchio d’acqua, assomigliando all’eternità, restituisce all’uomo un senso di mancanza interiore, mancanza dalle sembianze titaniche in cui Boga non veste i panni di un eroe romantico ma di un uomo comune macchiato dei difetti del mondo.
Chiaro ora appare il significato del vento di sudest che spinge la barca fino al largo di notte, facendo ritrovare l’imbarcazione in pieno fiume aperto illuminato dalla solitudine della luna e che avrebbe costretto Boga a staccarsi dal cielo, ad armarsi contro la totale passività e sottomissione che il fiume gli ha donato. Dopo dei danni riportati alla barca deve adesso approdare su un’isoletta, dove incontra il Cabecita, o uno che comunque gli somiglia, e un cane, ma i venti che soffiano gli riportano alla mente il Delta di cui ha nostalgia. Dopo poco infatti abbandonerà nuovamente la terraferma e, nonostante si ritrovi a soffrire il dolore delle ferite dovute ad uno scontro avvenuto con un uomo incontrato tra i canneti, inizia a percepire che «In un certo modo era tutto. Non sarebbe stato capace di ribellarsi contro niente, né di forzare la vita o il fiume, neanche in minima parte».
Successivamente però, con lo svanire dell’estate, condividendo parte del suo viaggio con altri compagni, egli viene a conoscenza anche del lato peggiore di chi quel posto come lui lo vive, che simmetricamente corrisponde anche a una nuova e insolita malvagità del fiume: non c’è cosa che lo infastidisce di più di chi si affida completamente alle sue acque. Entra a far parte infatti di una banda che sta organizzando una rapina, metaforicamente entra in contatto con il mondo degli yacht «calcolati su misura per l’uomo (nella sottospecie del diportista) e contro il fiume, non per l’uomo e il fiume», si distanzia cioè da quello che il torrente originariamente gli aveva concesso: un arricchimento interiore, mentre ora viene sfruttato per meri interessi commerciali economici, tralasciando invece quella patina di sacralità che fino ad adesso le acque hanno avuto.
Non a caso nel finale aperto, dopo la morte della banda di ladri a cui Boga si era unito, assistiamo a una nuova splendida solitudine; Boga ha maturato nuove consapevolezze: adesso che con i suoi «grandi occhi di pesce moribondo smisuratamente aperti» può stare davanti, la notte non è più travolto dalle luci che l’avevano fatto smarrire nella laguna dei suoi pensieri e così si avvia un processo di maturazione del personaggio a cui non assistiamo direttamente ma che possiamo immaginare.
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Nonostante il ritmo narrativo sembri rallentato in alcuni passaggi da termini e realtà specifiche del territorio argentino, le intenzioni di Harold Conti sono guidate dalla volontà di voler far riscoprire il dato non prettamente materiale ma anche spirituale e sentimentale dell’elemento naturale, senza scendere in forme di misticismo o in personificazioni forzate, anzi ne restituisce tutto sommato un quadretto molto realistico. Molto spesso i pensieri di Boca trovano voce senza l’intermediazione della voce narrante, così come l’alternanza di macro-sequenze dialogiche e descrittivo-narrative appare piuttosto sapiente.
Se si vuole venire a conoscenza di realtà ormai molto rare e si vuole far riacquisire un senso a tutti quei mezzi che sfruttiamo senza renderci conto del profondo valore intrinseco, Sudeste è il libro adatto.
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