Il racconto della nostra inquietudine. “Voragine” di Andrea Esposito
Voragine, scritto da Andrea Esposito e edito da Il Saggiatore, ha già riscosso un successo notevole entrando nella rosa dei finalisti del premio Calvino 2017.
Generalmente uno dei tratti caratterizzanti di un libro, al di là di quelli che sono i personaggi che possono o meno piacere al lettore, è proprio la fitta rete di ambienti entro i quali si risolvono le azioni degli esseri che popolano le pagine stampate. In effetti il sistema uomo-ambiente assume in questa narrazione, definita da molti metafisica, connotati del tutto particolari: pochi e vaghi sono i riferimenti che vengono fatti a luoghi concreti, solo un acquedotto romano in provina spicca tra tutti, in una città non meglio specificata. Un clima decadente, inquietante che a tratti richiama un vero e proprio universo lovecraftaino che si coniuga a elementi fin troppo realistici. Il connubio avviene attraverso una serie di immagini simboliche che collegano la dimensione del creato umano nella sua putredine con il riflesso della sua essenza contaminata dalla ferocia e dalla supremazia, dettata anche da interessi di carattere economico.
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Al degrado e alla frantumazione che accompagnano Giovanni, il protagonista del romanzo, corrisponde infatti una crisi dilagante dei valori interiori. Numerose sono le scene in cui la forza ferina sembra sostituirsi al raziocinio, dove quindi quella dimensione soprasensibile si fa carne negli atteggiamenti della bestialità umana, pur non perdendo però il filo del discorso in un bilico vacillante tra il non-luogo e il suo contrario.
Non risultano essere esenti da questa capacità mimetica e fluida neanche i luoghi chiusi, quelli in cui solitamente gli attori del copione narrativo si confrontano con se stessi o con le persone che gli sono più affini. Lo spazio circoscritto è sottoposto a un processo di metamorfosi progressiva, se all’inizio vediamo come la casa – in realtà un’abitazione molto di fortuna – nella quale Giovanni vive rappresenti seppur debolmente un piccolo nido in cui trovare riparo, si svuota di questo significato con la morte del fratello e con la lesione definitiva dei rapporti con il padre. Una riflessione sorge spontanea nella nostra mente: cosa effettivamente è per noi un luogo?
Naturalmente non un luogo qualunque, dove siamo costretti ad andare, ma quello in cui ci sentiamo un po’ più liberi di essere noi stessi, un luogo anche non materiale, inventato, una dimensione ai confini dell’onirico. Notiamo i personaggi, anche quelli apparentemente secondari, trovare riparo in un tunnel o in posti ben lontani dal tepore casalingo, e verranno sferzati se non addirittura uccisi dalle lame taglienti di un vento che non perdona. In realtà una dimensione più intima riapparirà, nella sua evanescenza, con l’incedere degli eventi, perché in fin dei conti i luoghi sono formati anzitutto da persone, persone che tra loro si confidano e si raccontano storie: avviene una maturazione inconsapevole della propria personalità, una formazione del carattere, in particolar modo quello di Giovanni. Lentamente si apre verso l’altro e racconta le proprie storie inventate, forse sogni, chissà… magari con qualche sfondo di verità. Allora nasce una flebile risposta alla domanda che prima ci siamo posti, quelli che noi consideriamo i nostri posti non sono nient’altro che appigli ai quali frammenti di anima e memoria si sono aggrappati, frammenti di noi.
La decadenza che il libro vuole mettere in risalto è in realtà la tendenza a voler lasciare spazi vuoti, dentro e fuori di noi, la tendenza a non voler appigliarci a niente o al contrario a rimanere intrappolati all’interno di una materia che prima o poi fa rimanere orfani, cadendo appunto nella voragine oscura del millennio. Il libro non fornisce una risposta esplicita a queste che molti considerano le “malattie” del secolo. È un viaggio, ancora una volta soggettivo, nel quale ognuno di noi deve confrontarsi con la sua parte meno nobile che può veder riflessa in qualche riga, anche di sfuggita.
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La presenza del narratore interno, che in alcune pagine ammette di assistere in prima persona a ciò che sta raccontando, non sfocia mai nell’onniscienza, rimane anche lui intrappolato nell’oblio dei materiali che nel libro si fondono. Usa però una sintassi semplice, dove predomina la componente espressionista che esaspera la soggettività del dramma che Giovanni sta vivendo. Tranne rare eccezioni, l’andamento risulta essere infatti paratattico ma non consegnato alla banalità: se infatti si considera la possente trama simbolica, anche il periodo più breve può racchiudere un significato che il lettore è chiamato a scoprire. Il prevalere di immagini tetre e decadenti, di cui oggi siamo più che mai bombardati, non ci deve scoraggiare dal leggere il libro, perché solo immedesimandosi nelle dinamiche evitiamo di cadere nel nero di una profondissima voragine.
Per la prima foto, copyright: Tim Marshall.
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