“Il principe del mondo”, intervista ad Antonio Monda
Con Il principe del mondo (Mondadori, 2021) Antonio Monda, eclettico scrittore, giornalista e regista cinematografico, nonché docente universitario e presidente del Festival del Cinema di Roma, aggiunge una nuova puntata alla saga di romanzi dedicati alla città di New York, dove vive ormai da molti anni, iniziata nove anni fa con la pubblicazione diL’America non esiste (Mondadori, 2012).
Ognuno di questi romanzi, che possono comunque essere letti separatamente e sono collegati uno all’altro solo dai riferimenti alla città e da qualche legame tra i personaggi che vi compaiono, è ambientato in un decennio diverso del secolo scorso.
L’ordine con cui Monda sceglie il periodo in cui ambientare le sue storie, all’interno delle quali mescola abilmente personaggi realmente esistiti a quelli di pura finzione, non è cronologico, per cui nel caso deIl principe del mondo ci troviamo verso la fine degli anni Venti, al tempo del Proibizionismo e del trionfo del cinema muto.
Ecco però che, precisamente nell’ottobre del 1927, l’intraprendente Sam Warner, la mente più brillante tra i quattro fratelli fondatori della casa di produzione Warner Bros, sta per lanciare il film che cambierà completamente Hollywood e il mondo del cinema: Il cantante di Jazz, interpretato da Al Johnson e fornito per la prima volta di una colonna sonora. Tutto cambia, dunque, nel mondo del cinema, perché d’ora in poi gli attori dovranno recitare con le loro voci oltre che con il corpo e la mimica facciale: e questa novità stroncherà molte carriere di attori e produttori, facendo però nascere anche nuovi divi.
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Assistente personale di Sam Warner è un giovane ebreo di New York, Jake Singer, che dopo la morte improvvisa del suo capo viene assunto con le stesse mansioni da Joseph Kennedy, miliardario capostipite di quella che è destinata a diventare nei decenni successivi la più celebre famiglia americana. Da quella che è in qualche modo una posizione privilegiata, Jake Singer segue per alcuni anni le vicende dei Kennedy e di tutti i personaggi più o meno celebri che entrano in contatto con loro: attrici, attori, registi, produttori cinematografici, politici, grandi affaristi ma anche esponenti della malavita, le cui azioni criminali hanno segnato in modo indelebile i ruggenti anni Venti del Ventesimo Secolo.
Antonio Monda ha risposto a qualche domanda sul suo nuovo romanzo.
La sua saga su New York è abbastanza atipica, nel senso che i romanzi non seguono un ordine cronologico. Come mai è partito dagli anni Cinquanta e in base a cosa sceglie il periodo in cui collocare un nuovo romanzo?
Quando ho iniziato il primo romanzo intitolato L’America non esiste, ambientato negli anni cinquanta, non avevo in mente di realizzare un’intera saga. In occasione del secondo libro, La casa sulla roccia, ambientato dieci anni dopo -salvo un breve prologo ed epilogo- ho voluto riprendere uno dei personaggi, e in quell’occasione ho capito che interessava svilupparli e tenerli con me a lungo. La saga, che ha l’ambizione di ripercorrere quello che è stato definito “il secolo americano”, è iniziata quindi quasi per caso. A me piace pensare che si tratti in realtà di un unico libro di dieci volumi, con una caratteristica costante: un protagonista immaginario, con l’eccezione di Ota Benga, che si trova ad interagire con personaggi storici realmente esistiti. Nel corso della saga ci sono numerosi personaggi ricorrenti o legati da parentela o amicizia a quelli di altri volumi.
Lei si è occupato e si occupa di cinema in molti modi: regista, attore, docente universitario, presidente del Festival del Cinema di Roma. La cultura cinematografica influenza in qualche modo la sua scrittura?
I miei modelli sono letterari, in particolare Hemingway, Borges e McCarthy per la semplicità cristallina della loro scrittura. Ma non posso negare che il cinema abbia un’influenza forte, e la prima suggestione è spesso quella di un’immagine.
Senza voler fare paragoni assurdi, ricordo che Gabriel Garcia Marquez ha raccontato che L’Autunno del Patriarca è nato dall’immagine del protagonista anziano che muore in un palazzo dove sono entrate delle vacche. Non è un caso che Marquez abbia studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Leggendo le sue pagine la figura di Joseph Kennedy – che in Italia abbiamo imparato a conoscere più che altro come il padre del presidente John, quindi quando era ormai un uomo anziano e malato – appare affascinante e contradditoria. Il mito di questa famiglia resiste ancora nell’America contemporanea oppure col passare del tempo ha perso il fascino che aveva qualche decennio fa?
I Kennedy rappresentano quanto di più vicino all’aristocrazia esista in America.
Non è un caso che il loro mondo, quando JFK era alla Casa Bianca e Jackie organizzava feste leggendarie, era definito Camelot. Ma studiando mi sono reso conto che, oltre alla lunga sequela di tragedie, c’erano in quel paradiso molti elementi infernali, e il patriarca Joseph Kennedy Sr. rappresenta il lato più oscuro della famiglia. Aveva in sé le caratteristiche migliori e peggiori di un americano: era orgogliosamente irlandese e nello stesso tempo statunitense, caratteristica tipica di chi riesce ad affermarsi in questo paese.
Era dotato di un’intelligenza molto acuta, nel senso più etimologico del termine, intus legere. E aveva soprattutto quella che gli americani chiamano vision: la capacità di sapere vedere il futuro, scommettere su di esso e forgiarlo. Ma il patriarca era anche anti-semita, filo-nazista, omofobo e con ogni probabilità contrabbandiere in combutta con criminali. Per tracciarne il ritratto, non si può dimenticare che ha fatto lobotomizzare la figlia Rose Marie, che soffriva di disturbi mentali, e che non è neanche andato al funerale del padre perché impegnato nella conclusione di un affare.
Jake Singer, la voce narrante de Il principe del mondo, si ritrova in più occasioni a riflettere sulle sue radici e sul complesso rapporto che ha con la famiglia d’origine. Per lei che vive da tanti anni a New York quanto contano le radici?
Credo che la vita di chi ha scelto di vivere lontano dalla propria terra è simile a quello di una pianta, che deve svilupparsi cercando il sole che le consente di maturare e dare frutti. Guai però a recidere le proprie radici: in quello stesso momento si muore.
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La caratteristica di fondo dei suoi romanzi è la mescolanza fra personaggi reali e personaggi inventati. Non prova un certo timore a manipolare in qualche modo le vite di persone famose, sia pure a livello di finzione narrativa?
Amo i romanzi storici nella tradizione di E.L. Doctorow e Marguerite Yourcenar, e cerco di essere del tutto rispettoso della realtà dei personaggi, studiandone le vite e i documenti. Più che di manipolazione parlerei di interpretazione alla luce di documenti certi.
La boxe compare spesso nei suoi romanzi. Qual è il suo rapporto con questo sport?
George Foreman ha dichiarato che si tratta dello sport a cui vogliono assomigliare tutti gli altri, per la sua epica semplicità. Le altre discipline declinano la sfida attraverso mezzi quali una racchetta, degli sci o un pallone, ma la boxe è diretta, essenziale, eterna: non è un caso che se ne parli anche nella Bibbia.
Con buona pace di De Coubertin, ogni atleta vuole vincere, altro che partecipare, e alzare le braccia al cielo mentre il rivale è stramazzato al tappeto: è una terribile verità che non vogliamo sentire.
Inoltre la boxe -solo la boxe- ha un momento unico e irripetibile: quello in cui i due contendenti si guardano negli occhi prima dell’inizio del match. Chi ne capisce sa che gli incontri si vincono in quel momento: i due pugili si promettono dolore, e solo chi sa reggere quello sguardo che promette dolore riuscirà a prevalere.
Ovviamente nel caso della mia saga la boxe ha anche un valore metaforico rispetto al senso di sfida continua che è l’esperienza esistenziale americana.
Lei ha dichiarato che chiuderà questa saga al decimo volume. Quali sono i periodi in cui ambienterà i due mancanti?
Il prossimo è ambientato negli anni Trenta, e l’ultimo negli anni Dieci.
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