Il potere salvifico dell’arte. “Città sola” di Olivia Laing
Città sola di Olivia Laing (Il Saggiatore, traduzione di Francesca Mastruzzo) è un libro davvero entusiasmante, un’opera talmente ricca di spunti da sfuggire a una definizione precisa di genere. La si può forse descrivere come l’autobiografia di un segmento di vita, raccontato attraverso le esperienze e il lavoro di un pugno di artisti, con cui l’autrice ha condiviso – in tempi diversi – le strade e i luoghi di una città e probabilmente anche le sensazioni suscitate dalle peculiarità della città stessa. La città è New York, mostrata nella sua costante evoluzione, ma, pur nei mutamenti, sempre uguale a sé in quanto luogo di una solitudine collettiva. «Città sola», appunto, come anticipa il titolo.
Ciascun capitolo è un piccolo saggio di storia dell’arte, in cui si innestano ricordi e riflessioni personali intorno al tema unificante del libro, esaminato da diversi punti di vista (medico, psichiatrico, sociale): la solitudine.
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Si tratta di una condizione sperimentata acutamente dalla narratrice in un periodo trascorso a Manhattan, sola e straniera (Laing è inglese). Ed è la condizione vissuta, anche solo intimamente, da ciascuno degli artisti raccontati, che nella propria opera le danno voce in modo inequivocabile. Il pittore Edward Hopper e Andy Warhol ne soffrono a dispetto di fama e fortuna. Negli altri artisti, assai meno celebrati, la solitudine è causata o aggravata da esperienze di abusi, povertà estrema, malattie. È il caso di David Wojnarowicz, morto di Aids nel 1997, e, ancora peggio, di Henry Darger, un paria creduto pazzo i cui dipinti a collage sono stati rinvenuti per caso in un cumulo di spazzatura, a Pittsburgh.
Due figure di donna spiccano come forse le più sole in assoluto, perché non è rimasta traccia dell’espressione della loro arte. Entrambe gravitavano intorno ad artisti più famosi. L’opera di Josephine Nivison, in vita derisa e sminuita dal marito Edward Hopper, venne cancellata dai curatori del Whitney Museum di New York, che, dopo la morte della misconosciuta pittrice, si disfecero dei suoi quadri. Quanto a Valerie Solanas, la scrittrice americana che negli anni Sessanta desiderava creare una società più solidale e meno atomizzata attraverso la forza delle parole, impazzì e sparò a Andy Warhol, e le sue parole finirono per essere del tutto ignorate.
L’opera è incentrata principalmente sulle figure di quattro artisti – Edward Hopper, Andy Warhol, David Wojnarowicz e Henry Darger. A ciascuno è dedicato un capitolo, che ne ripercorre l’infanzia, descrivendone interessi e opere, e il modo particolare di esprimere o combattere la propria solitudine. Tuttavia, poiché luoghi, persone, episodi delle rispettive vite si intrecciano o si richiamano, ciascun artista si ripresenta in diverse parti del libro. Laing porta alla luce legami e somiglianze investigando in musei e archivi, ma anche per le strade della città, sui moli sul fiume Hudson, nei piccoli loft abitati dagli artisti e dai loro amici. Le informazioni che raccoglie sono sempre filtrate, impregnate della sua sensibilità ed esperienza.
Nello stesso tempo, Laing si rivolge con pari attenzione anche a personaggi minori, di contorno nella vita dei quattro artisti. Il cantante di origine tedesca Klaus Nomi, per esempio, la prima persona famosa a morire di Aids. Raccontando della “scena” artistica nella New York degli anni Ottanta, Laing parla dell’esplodere della malattia, della reazione indifferente e punitiva delle autorità, e poi della lotta del movimento ACT UP, di cui facevano parte molti artisti, per cambiare le cose.
Dalla comunità degli artisti gay di Downtown, la sua riflessione si allarga ancora una volta ad abbracciare altri modi di vita stigmatizzati dalla società, e a indagare la connessione tra arte, diversità e solitudine. Pazzia, omosessualità, povertà, colore della pelle (alcune pagine sono dedicate a Basquiat e a Billie Holiday): qualunque ne sia la causa, l’esclusione sociale può portare più rapidamente alla malattia e alla morte. L’arte però può offrire una soluzione. Dando voce alla sofferenza di chi è portatore di uno stigma, si offre come un tentativo di riparazione e di cura. Come nell’installazione Strange Fruit di Zoe Leonard, dedicata a David Wojarowicz, l’arte sa dire e sa ricucire le ferite della solitudine. L’opera, custodita al Philadelphia Museum of Art, mostra 302 frutti sparsi sul pavimento, svuotati della polpa ma con la scorza ricucita a punti grossi. L’allusione è agli autoritratti di Wojnarowicz, fotografie che raffigurano l’artista con la bocca cucita, in segno di protesta contro l’assenza di una politica sull’Aids. Strange fruit è un’altra parola per omosessuale, ma è anche il titolo di una canzone di Billie Holiday, che evoca i corpi dei neri linciati e bruciati, penzolanti dagli alberi come strani frutti.
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Se l’arte vuole riparare, la soluzione offerta da Laing è l’empatia, guardare e scavare nella vita delle persone per capirle, forse, come voleva Valerie Solanas, per creare comunità che cooperano per raggiungere fini comuni.
Come altri libri che mi è capitato di leggere in questo periodo (Gehen, ging, gegangen di Jenny Erpenbeck o Between the World and Me di Ta-Nehisi Coates, su immigrazione e razzismo), Città sola di Olivia Laing sembra avere la forza di creare empatia, di spingere alla solidarietà. Come scrive Laing nell’ultima pagina, «ciò che conta è la gentilezza; ciò che conta è la solidarietà. Ciò che conta è essere vigili e sempre aperti, perché se abbiamo imparato qualcosa da chi ci ha preceduto, è che il tempo dei sentimenti non dura per sempre.»
Per la prima foto, copyright: Tom Holmes.
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