Il posto di ciascuno è nel noi. “In tempo di guerra” di Concita De Gregorio
Se ogni generazione si impegnasse a lasciare in eredità solo mattoni integri o incrinati, invece di macerie e cocci da raccogliere, ciascun individuo sarebbe in grado di riconoscere il proprio posto nel mondo, grazie anche alla consapevolezza di essere una parte imprescindibile di un “noi” che contribuisce alla Storia dell’umanità?
E se il codice genetico contemplasse anche i sogni, che forma avrebbe il senso di smarrimento che ci attanaglia di fronte a un presente incerto e un futuro perfino inconcepibile? Come ci sorprenderebbero i bilanci, intermezzi di vita che ci braccano, pretendendo risposte sulla nostra identità e chiedendo conto di tutto ciò che è stato realizzato, interrotto, lasciato sospeso, a volte abbandonato? Forse ci coglierebbero meno affannati dalla ricerca, a tutti i costi, di una direzione da seguire, un’idea da difendere, un dogma in cui credere. Un modello da replicare, nella piena soddisfazione delle aspettative, proprie e altrui. Forse.
«Il posto è quello che ti dai», scrive la giornalista e scrittrice Concita De Gregorio nell’ultimo libro In tempo di guerra (Einaudi, 2019), un romanzo epistolare che trae ispirazione da una delle numerose lettere arrivate alla rubrica che cura sul quotidiano «La Repubblica». Un’agorà in cui confluiscono le paure, le fragilità, i dubbi, le difficoltà non solo di chi scrive ma anche di chi, leggendo, si riconosce, si specchia. Si identifica.
Uno spazio riservato all’ascolto – pratica sempre meno diffusa in un’epoca di aggressività verbale e polarizzazione estrema delle opinioni – di chi si ritrova nella rete di un disagio il cui impatto sociale, molto spesso, si ignora e quindi sottovaluta: il benessere e il malessere del singolo hanno sempre a che fare con la comunità di appartenenza, sono elementi di un circolo che diventa vizioso quando si comincia a considerarli entità separate. Io o gli altri. L’individuo o la società. Due estranei che condividono la stessa sedia, senza mai sfiorarsi.
«La raccomandazione a restare vivi non li colpisce come una stranezza. L’ipotesi di non farlo, dunque, neppure. Uccidersi è una possibilità “nella norma”.»
Desideri migliorare il tuo inedito? Scegli il nostro servizio di Editing
Ed è proprio attraverso “l’ascolto” di queste lettere che Concita De Gregorio è riuscita a ricostruire un filo che lega le istanze provenienti dalle diverse storie, che non sono altro che scampoli della stessa stoffa: Marco, il protagonista, è l’emblema della generazione dei trentenni di oggi, «un esercito di invisibili» che fatica a riconoscere la strada da imboccare in nome di un sogno, un progetto, un ideale, così come accaduto a chi c’è stato prima: genitori, nonni, bisnonni.
Solitudini inconsapevoli di essere atomi di una moltitudine proprio perché di quella moltitudine nessuno si occupa, nemmeno la politica che dovrebbe esserne portavoce principale. Quando non c’è alcuna possibilità di confronto e condivisione, ci si sente soldati di una battaglia che riguarda solo l’io, mai la collettività: se il tema è il grande assente nei dibattiti politici fatti a suon di tweet e ospitate nei talk show, l’abisso che risucchia te, trentenne precario e senza prospettive, è una questione privata che riguarda, al massimo, le persone che ti sono accanto.
«A noi non ha pensato nessuno: non gli interessavamo proprio. Alla nostra scuola sempre più disgraziata, al lavoro che avremmo cercato senza trovarlo, all’idea di mondo che sarebbe stato dopo di loro – non gliene fregava niente…»
Una narrazione che prende avvio da una richiesta di Marco all’autrice: una settimana del suo tempo per condividere un viaggio di parole racchiuse «in sei scatole di latta e quattro diari», un universo intimo svelato attraverso lettere, mail e pensieri di un bambino e adolescente, prima, e di un giovane uomo poi, pervaso da una sensazione di estraneità così forte da far nascere in lui la convinzione di appartenere a una razza extraterrestre.
Un’estraneità rispetto alla realtà circostante, ma anche all’ambiente famigliare, un contesto in cui ciascun componente ha fatto di un’ideologia, un credo o un sogno, giusto o sbagliato che si possa considerare, il suo campo di gioco.
«La Resistenza, la chiesa che fa i miracoli, la medicina, il Pci, l’aristocrazia col sangue blu, i movimenti degli anni Settanta, la lotta armata, i vegani, gli artisti, la vita nei boschi, la Congregazione di Geova, la scienza…»
In un quadro di figure disposte tutte al posto “giusto”, Marco è stretto tra la reticenza a lasciarsi imprigionare da dottrine suscettibili di minarne la libertà di scegliere e quindi di “essere”, e il desiderio di trovare una trincea in cui combattere la propria guerra, un ideale a cui aggrapparsi. E se da un lato, infatti, viene attratto dal movimento di Resistenza dei Peshmerga e si avvicina alla politica per poi però allontanarsene, deluso e amareggiato, dall’altro si oppone a tutti i concetti fondati sulla contrapposizione tra il noi e gli altri e sul mancato riconoscimento del posto che ciascuno, nessuno escluso, occupa nel mondo, portando su di sé la responsabilità individuale, e quindi collettiva, di agire per migliorarlo e cambiarlo.
Il rifiuto di qualsiasi estremismo travestito da “giusta causa”, che priva il singolo della capacità di giudizio e lo confina in un gruppo ostile al dialogo, alla diversità, alla curiosità e alla conoscenza, è alla base di una scelta dolorosa quanto netta del protagonista, una decisione che rappresenta una forma personale di Resistenza. Un atto di ribellione che implica una perdita e una separazione, ma che lo guida verso una scoperta tanto inattesa quanto fondamentale: è una chiave di lettura della sua storia, ciò che dissolve la patina che gli impediva di dare un nome al senso di estraneità che lo accompagnava fin da bambino.
«Voglio cominciare da qui: trovare almeno una via, imboccare la strada che porta alla misura. Un po’ di equilibrio, una specie di democrazia degli organi interni. Voglio imparare ad ascoltare tutti i miei pezzi.»
Una narrazione che si snoda attraverso gli scambi epistolari che Marco intrattiene con la sorella Anna, la nonna Teresa, i nonni Antonio e Adelmo, l’amico Diego e i genitori, scambi che sono anche contenitori di confronto e scontro intergenerazionale, rappresentazione di una società in cui la precarietà e la mancanza di certezze sono un veleno che inquina ogni ramo di quell’albero chiamato vita: il lavoro, i sentimenti, le relazioni.
Concita de Gregorio non si limita però ad ascoltare e trasformare il racconto di Marco in una melodia di parole: rivendicando il diritto a “non avere risposte”, sceglie di aprire il suo baule di sguardi sul mondo, lasciando il proprio interlocutore – e il lettore – libero di frugarvi, attingervi e appropriarsi di ciò che più sente rappresentativo del sé. In un momento storico dominato dalla presunzione della detenzione del sapere, l’autrice ci consegna le chiavi di accesso a stanze in cui aleggiano voci che parlano di coraggio, lotte politiche, bellezza: estratti di discorsi che sono dei veri e propri manifesti politici, come quello di Alex Langer pronunciato ad Assisi nel 1994, articoli di giornale che sono fotografie della società odierna – le battaglie climatiche a suon di jet privati e feste milionarie, l’industria della manicure e del cibo dietetico e biologico, il proliferare di sette come il respirianesimo –, l’eredità poetica di Alejandra Pizarnik, l’arte provocatoria e l’animo libero di Carol Rama, la resistenza silenziosa e tagliente di Osvaldo Lamborghini, l’accettazione della caducità delle cose umane e il congedo di Roberto Bolaño dalla vita che trova il significato più profondo in un incontro.
L’intero romanzo è un mosaico in cui tutto si mescola e converge: politica, musica, arte, poesia, conflitti, amori, fratture, riconciliazioni, congedi, partenze, ritorni, e che narrano un mondo che si presta a essere ascoltato e interpretato in modi diversi, ad accogliere esistenze che possono essere modificate, riparate, e poi scritte ancora. Perché ognuno ha la possibilità – il diritto, forse anche il dovere – di fermarsi e rileggere la propria storia, mettere in discussione ciò che è e ciò che vorrebbe essere, il presente e il futuro, cadendo e poi ricostruendosi, accettando le sconfitte e le proprie debolezze, ma senza mai soccombere a una società che va in frantumi.
E ancora una volta la scrittura di Concita De Gregorio riesce a far vivere le parole, a far sì che da esse prendano forma corpi, volti, voci: ogni personaggio che abita questo racconto si delinea lentamente, fino a diventare un’immagine nitida, attraverso ciò che descrive e rimanda di se stesso e dell’altro.
Con la delicatezza di una scrittura che dà forza alla fragilità umane, Concita De Gregorio ci regala un libro che non è una mera denuncia sociale perché la realtà di cui ci parla non è fatta di statistiche né di figure astratte e senza identità, ma delle paure e dello smarrimento che ognuno può provare dentro di sé e riconoscere negli occhi di un sconosciuto incontrato per strada, seduto accanto nel vagone di un treno o sul bus che ci riporta a casa.
Vuoi collaborare con noi? Clicca per sapere come fare
Perché nello sguardo degli altri c’è sempre un pezzo di noi. Che manca, che abbiamo perduto o che ancora non riusciamo a decifrare. Basta sapere aspettare, osservare, cambiare prospettiva ed essere aperti al sapere, alla conoscenza degli altri e di noi stessi. Perché il posto di ciascuno può trovarsi nell’intercapedine che separa ciò che si desiderava essere e ciò che non si è diventati, ciò che si è appreso e ciò che si è ignorato.
«Ognuno ha una favola dentro, che non riesce a leggere da solo. Ha bisogno di qualcuno che, con la meraviglia e l’incanto negli occhi, la legga e gliela racconti», scrive Pablo Neruda. E Concita De Gregorio ci ricorda che, affinché accada, serve fiducia in ciò che la vita attende di rivelarci. Quando ci vedrà pronti ad andarle incontro e a giocare insieme a lei.
Per la prima foto, copyright: Tim Mossholder su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
Speciali
- Corso online di Scrittura Creativa
- Corso online di Editing
- Corso SEC online (Scrittura Editoria Coaching)
- Lezioni di scrittura creativa
- Conoscere l'editing
- Scrivere un romanzo in 100 giorni
- Interviste a scrittori
- Curiosità grammaticali
- Case editrici
- La bellezza nascosta
- Gli influencer dei libri su Instagram – #InstaBooks
- Puglia infelice – Reportage sulle mafie pugliesi
- Letture di scrittura creativa
- Consigli di lettura
- L'Islam spiegato ai figli
- Interviste a editor e redattori
- Interviste a blog letterari
- Interviste a giornalisti culturali
- Interviste a docenti
- Come scrivere una sceneggiatura
- Premio Strega: interviste e ultimi aggiornamenti
- Premio Campiello: interviste e ultime novità
- Premio Galileo: interviste
- I nuovi schiavi. Reportage tra i lavoratori agricoli
- La Webzine di Sul Romanzo
Archivio Post
Più cercati
- Quanto fa vendere il Premio Strega? I dati reali
- Che tipo di lettore sei?
- I 20 consigli di scrittura di Stephen King
- Test di grammatica italiana, qual è la risposta giusta?
- Classifica dei libri più venduti di tutti i tempi nel mondo
- Come scrivere un romanzo: 15 modi utili
- 11 consigli per trovare la tua writing zone
- 13 cose che gli amanti dei libri sanno fare meglio di tutti
- 7 posti che tutti gli scrittori dovrebbero visitare almeno una volta
- Carlos Ruiz Zafòn ci racconta il suo Cimitero dei libri dimenticati
- I 10 film più divertenti di tutti i tempi
- I consigli di scrittura di 11 scrittori
- La reazione di Cesare Pavese quando vinse il Premio Strega
- Le 10 biblioteche più grandi del mondo
- Marcel Proust pagò per le prime recensioni di “Alla ricerca del tempo perduto”
- Perché uscire con uno scrittore? 10 motivi validi