Il piacere della lettura secondo Marcel Proust
Il piacere della lettura è il titolo dato a una breve raccolta di prefazioni e saggi scritti da Marcel Proust in un momento di riflessione produttiva. Nel 1906 accadono due fatti importanti nella vita dello scrittore: l’uscita del saggio Sulla lettura come prefazione alla traduzione in francese, da lui stesso eseguita, di Sesamo e gigli di John Ruskin e la decisione di dedicarsi totalmente alla scrittura dell’opera che diverrà il suo capolavoro, Alla ricerca del tempo perduto. Nella nuova traduzione del saggio contenuto in Il piacere della lettura edito da Feltrinelli nel 2016 (traduzione di D. Feroldi) ci immergiamo poco a poco nell’ambiente domestico dello scrittore e lo cogliamo mentre “gioca a nascondino” con chi, diverso da lui per interessi e attività quotidiane, invade il suo angolo privato deputato alla lettura. Scorrendo le pagine osserviamo che non si tratta di un luogo fisico esclusivo, diversamente dai momenti della giornata che Proust amava dedicare al suo piacere, almeno durante le vacanze: quelli erano precisi quanto la loro attesa, “La mattina, rientrando dal parco”, “Dopo pranzo”, “E qualche volta, a casa, nel letto, molto dopo cena, anche le ultime ore della sera davano rifugio alla lettura”.
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Quanto al luogo, nessuna scelta:
Mi sentivo di vivere e pensare solo in una stanza dove tutto è creazione e linguaggio di vite profondamente diverse dalla mia, di gusti opposti ai miei, dove non ritrovo nulla del mio pensiero cosciente, dove la mia immaginazione si esalta sentendosi immersa nel cuore del non-me; mi sento felice solo mettendo piede –nel viale della stazione, sul porto o nella piazza della chiesa – in uno di quegli alberghi di provincia…
Sembra quasi una fuga verso un qualsiasi anfratto dove potersi ritrovare in solitudine come quando leggeva Il Capitan Fracassa di Théophile Gautier.Ne amava due o tre frasi, così belle alla sua mente da lasciargli sperare di trovare in quell’opera la verità:
Avrei voluto che mi dicesse, lui, unico saggio detentore della verità, cosa dovevo pensare di preciso di Shakespeare, Saintine, Sofocle, Euripide, Silvio Pellico che avevo letto durante un mese di marzo freddissimo, camminando, battendo i piedi, correndo per i sentieri, ogni volta che chiudevo il libro, nell’esaltazione della lettura appena conclusa, delle forze accumulate nell’immobilità e del vento salubre che soffiava per le strade del villaggio.
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Già dalla stagione della giovinezza e poi più avanti negli anni, la lettura gioca un ruolo “essenziale” nella ricerca della verità e ciò lo troviamo dichiarato anche nella Strada di Swann con alcune riflessioni come questa:
Dopo quella fede centrale, che, durante la mia lettura, compiva movimenti incessanti dall’interno all’esterno verso la scoperta della verità, venivano le emozioni che mi dava l’azione alla quale prendevo parte, giacché quei pomeriggi erano più ricchi d’avvenimenti drammatici di quanto spesso non sia tutta una vita. Erano gli avvenimenti che accadevano nel libro che leggevo.
Una verità che può essere svelata dentro quella che Proust definisce “vita spirituale” e per arrivare alla quale il ruolo della lettura si scopre essere “essenziale e limitato”insieme perché mentre cerchiamo delle “risposte” in ciò che leggiamo, troviamo “desideri”.
Giacché uno degli effetti dell’amore che i poeti suscitano in noi è farci attribuire un’importanza letterale a cose che per loro sono indicative solo di emozioni personali.
E dunque, ecco emergere la verità secondo lo scrittore: «La lettura sta sulla soglia della vita spirituale; può introdurci in essa ma non la costituisce».
Il potere che Proust conferisce alla lettura è sul limite del salvifico se solo pensiamo a tutte le volte che ci siamo confrontati con una buona pagina fino a desiderare di scriverla. Una musa che libera volontà e piaceri. E se proprio non la crea la nostra vita spirituale almeno ce la lascia immaginare lì, a portata di mano, da plasmare e modellare come la creta ispirata dal soffio divino. E da quella “vita” scaturisce il rapporto con un’altra vita, quella vera e concreta di chi, come Schopenhauer, «regge senza sforzo le più sterminate letture, ogni nuova conoscenza essendo da lui immediatamente ricondotta alla parte di realtà, al nucleo vivo che contiene».
Schopenhauer non avanza mai un’opinione senza supportarla immediatamente con molteplici citazioni, ma si sente che per lui i testi citati sono solo esempi, allusioni inconsapevoli in cui ama ritrovare alcuni tratti del proprio pensiero, ma che non l’hanno assolutamente ispirato.
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Forse perché leggere, in particolari casi come questo di un ingegno intellettuale, conduce a circondarsi di amici del pensiero. Il filosofo se ne fece molti nel suo sentimento pessimistico citando Swift che celebrava il giorno della propria nascita come un momento di dolore, Plinio che scriveva «Nullum melius esse tempestiva morte», Platone che vedeva nella morte un sommo bene e poi Omero, Shakespeare, Byron, ecc.
Con questo tipo di amicizia non ci sono timori di abbandono, inquietudini dettate dai silenzi, incomprensioni. Così ce la ricorda Proust:
Siccome tutti noi, noi vivi dico, non siamo altro che morti non ancora entrati in funzione, tutti i convenevoli, i salamelecchi da anticamera che chiamiamo deferenza, gratitudine, dedizione, e in cui infiliamo tante menzogne, sono sterili e faticosi. […] senza contare che le frasi eccessive proferite in quei primi momenti restano come cambiali da pagare, o che pagheremo ancora più care per tutta la vita col rimorso di averle lasciate andare in protesto.
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Se lo pensiamo scritto nel 1906 questo pensiero sull’amicizia ha di vecchio poco più che il riferimento al mondo borghese e alle cambiali. Per il resto sembra che tuttora gli amici che ci facciamo leggendo siano davvero quelli da cui ci allontaniamo senza nulla a pretendere. Perché il piacere di leggere è il piacere della solitudine costruttiva e del confronto con le pagine di chi le ha pensate, in un dialogo tra menti attive e “senza nessuna cortesia”.
Per la prima foto, copyright: Lilly Rum.
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