Il passo del vento nel sillabario alpino di Mauro Corona e Matteo Righetto
Il sillabario è un libro per imparare a leggere, partendo dalla minima unità che costituisce la parola. È anche un modo di riordinare la vita in base a poche, essenziali coordinate; primario è dunque Il passo del vento. Sillabario alpino, scritto a quattro mani – e due temperamenti – da Mauro Corona e Matteo Righetto per Mondadori.
A mettere in salvo i lembi di terra che scompaiono, inghiottiti dalla voragine della globalizzazione, si inizia salvando le parole che li definiscono; quelle che ne fissano i riti e le tradizioni; i gesti e gli ingredienti per prendersi cura delle persone, gli animali, le cose; quelle che interpretano indicazioni e moniti della natura, intesa nel senso latino di nascita, generazione, venuta al mondo. La montagna è custode di un sapere unico, eccezionale, diverso da qualsiasi altro; palpitante di occhi, suoni, odori, cibi, tracce, figure leggendarie: «Chi impara a scuola insegni a scuola e là si fermi. Lascino stare i montanari, sanno fare loro». Ciò che s'impara nei boschi è per eccellenza senza frontiere; abbatte i muri, le divisioni; amalgama insieme sogno ed esperienza, perché conferisce loro pari dignità sentimentale. Geografiche o utopiche che siano le vette che ci tocca o ci proponiamo di scalare, se ascoltiamo con attenzione la voce della montagna troveremo la strada, il riparo, il rimedio, il cibo per sopravvivere. Ognuno di noi è un alpinista inconsapevole, un rocciatore suo malgrado: siamo tutti in cerca di un appiglio, che è senz'altro la prima lettera dell'alfabeto umano e uno dei cardini di questo sillabario. Senza appiglio nessuno di noi supererebbe la prova della carne dell'orso e cadrebbe all'istante in un dirupo il cui fondo non avrebbe un salvifico materasso di foglie.
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Il sillabario alpino decodifica un linguaggio spesso del tutto inverso rispetto a quello urbano; nei tempi della macchina del fango, in montagna bisogna imparare ad «ascoltare l'odore del letame»; dove impera il tutto e subito, il sillabario esalta la bellezza della fatica come forma di serenità e appagamento; nel mondo della prevaricazione della tecnologia e della corsa a servirsene, il faggio insegna che «ogni cosa ha il suo legno e ogni persona il suo talento»; oggi che le relazioni affettive si costruiscono a colpi di touch screen su Tinder, l'ode al fienile come luogo in cui si scopriva il sesso (e ci si curava le malattie del freddo) è un dolcissimo inno al mescolarsi della pelle, da cui emerge la sorprendente fragilità dell'uomo rispetto all'incorruttibile robustezza mentale della donna.
In generale libri nascono per indurre il lettore a farsi delle domande, ma Il passo del vento porta con sè, se non delle risposte, almeno delle strategie di sopravvivenza; la prima è la mimesi, come fa la ghiandaia – che nell'epoca del dis-umanesimo (il sillabario lavora anche sui neologismi, non solo sulle parole quasi perdute e sul concetto di lingue intese come biodiversità), dove l'empatia scompare, travolta dalla slavina dell'ego – riesce a mettersi nei panni degli altri, a calzarne perfettamente le scarpe, imparando a riprodurre i versi di specie diverse, compresa quella umana; o l'indipendenza dello Jassus Lania, una piccola cicala che compie grandi balzi a dispetto del proprio minuscolo corpo, e indica il modo in cui dovremmo educare i più piccoli a essere curiosi dell'ambiente che li circonda. O ancora il larice, l'albero più bello secondo Mario Rigoni Stern, che serve a non smarrirci tra le nebbie: tutti dovremmo individuare il nostro larice di Gea, che è anche la conifera che simboleggia la capacità di mantenere i segreti.
In montagna ci sono le greggi, ed è solo lì che dovrebbero stare, perché noi, dal gregge, dovremmo invece uscire, uscirne anche a costo di sperimentare la solitudine del pastore, «una solitudine dissimile da tutte le altre [...]. Per un lavoro simile ci voleva una tempra coriacea e uno spirito saldo, come quello dei pionieri, dei migranti, degli eremiti […]. Era un obbligo morale del singolo nei confronti della comunità: un sacrificio del singolo per il bene della moltitudine. Nell'egocrazia di oggi, quanti sarebbero capaci di tanto?». L'elemento di protesta sociale, di rivendicazione della lotta per la difesa del pianeta, pervade questo libro placido e lo rende crepitante come un fuoco nella stube.
Oltre che un prontuario per la mente e l'anima, il Sillabario alpino è un vademecum contro i piccoli e grandi malanni del corpo, e un elenco di rimedi casalinghi: leggendo verrà voglia di salire in montagna a cercare le bronze di pino mugo, per immergerle nello zucchero e sperimentarne gli usi; o di recuperare la molteplice utilità della trementina del larice. Ma questo libro è anche un ricettario, una guida ragionata dei frutti e dei cibi della montagna: il miele a confronto con la melata, i kasunzièi, i mirtilli, lo speck, le gioie del palato mescolate alla convivialità. L'amicizia è il sentimento che lega gli uomini in cordata così come intorno a un tavolo, con un boccale di birra o un bicchiere di vino in mano; senza grandi discorsi, risparmiando le parole per non usurarle e quindi trasmetterle limpide e forti ai posteri: si chiama discernimento o, come si diceva una volta, aver criterio.
Il criterio si applica quando si decide di seguire un'orma, perché tutti seguiamo l'orma di qualcuno; ma come discernere, in mezzo alla neve o persi nella nebbia, se l'orma appartiene a una preda o a un predatore? Ecco allora il gufo, che vede di notte, e «vedere di notte significa far solo promesse di valore e sforzarsi poi di mantenerle a ogni costo, perché tra incertezze e opportunismi il rispetto della parola data è la lezione più grande che possiamo lasciare». Scoprire l'incanto dell'enrosadira, quel pudore e quel senso della modestia che l'esibizionismo contemporaneo mette a dura prova. Se ti esponi da imprudente, è facilissimo che l'ecoti restituisca come in uno specchio l'essenza di quel che davvero sei: un mona.
Prevale l'oralità, in questo libro, e il monito che il racconto di una storia ancestrale sempre racchiude; quel «me lo disse...» vale da parabola, è testimonianza di vita che non si può scalfire, inalterabile come una roccia ignea. Le storie di montagna mantengono vivi i morti e li elevano al rango di creature leggendarie: uomini e donne epici, che non hanno temuto i rauchi ululati delle valanghe, ben peggiori di quelli dei lupi; che hanno sparso buonsenso soffiando forte sul fiore di tarassaco, nella sua veste impalpabile; pernici bianche, simboli di unicità ed estinzione; ma anche spiriti forti, modellati da quella «scuola di gesti e silenzi» che è l'inverno, consapevoli del fatto che ogni risalita è ben più difficile della salita, se all'improvviso si è rotolati sul fondo.
Se è vero che il posto dove nasci decide il tuo carattere, è anche vero che è il posto in cui veniamo educati a fare che ci si possa riconoscere l'uno nell'altro, e intendere. Da questo libro emergono nitidi i contorni delle personalità diverse e complementari dei due autori: meditativo l'uno, sanguigno l'altro; si fondono nella saggezza, priva di spaccature generazionali, di considerare ogni impresa, nella vita come sulla montagna, un punto di partenza, mai di arrivo.
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Insieme, Mauro Corona e Matteo Righetto hanno rilegato le pagine di questo sillabario alpino, un libro di vetta che abbiamo il privilegio di poter portare a valle, nelle nostre case. Il passo del vento che s'incanala tra le righe spinge una nuova alba, e «l'alba deve già trovarci pronti».
Per la prima foto, la fonte è qui.
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