Il “Morgante” di Luigi Pulci, poema della parodia
Il Morgante è la più celebre opera di Luigi Pulci, autore fiorentino intimo amico di Lorenzo de’ Medici. Discendente di una nobile famiglia ormai decaduta, privo di una solida formazione umanistica, Pulci comincia a frequentare il palazzo mediceo nel 1461, facendo da contraltare alla letteratura elevata del periodo con la predilezione per una poesia incentrata sulla burla e sui cantari popolari. All’inizio del 1460 comincia la stesura del Morgante, la cui edizione finale arriverà nel 1483, e sarà detta maggiore per distinguerla dalle precedenti stampe che facevano circolare solo una parte del poema.
L’opera è un poema in ottave, e conta ventotto cantari; fra il 1461 e il 1470 Pulci realizza i primi ventitré, basandosi su Orlando, un cantare anonimo del xiv secolo. Alla fine degli anni Settanta, l’autore ha in programma un secondo poema, che, stando ai progetti, avrebbe dovuto avere un tono più serio e religioso rispetto al primo Morgante, essendo dedicato alla battaglia di Roncisvalle. L’anonimo poema trecentesco viene abbandonato, le nuove fonti a cui Pulci guarda sono una Spagna in rima, una in prosa, e la Rotta di Roncisvalle. Pulci aggiunge cinque cantari ai precedenti, poi abbandona l’intento; ma ben si nota come l’ultima cinquina risulti densa di pathos, di linguaggio dotto, elevato, di latinismi.
Gli elementi che compongono l’opera, i cosiddetti cantari, sono raccolte dei racconti che i giullari e i cantastorie narravano nelle piazze; Pulci utilizza queste narrazioni e, inoltre, unisce le tradizioni dei due grandi cicli medievali: trama e personaggi derivano dall’epica carolingia, la magia, i mirabilia, il fantastico deriva dal ciclo bretone.
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La trama vede il paladino Orlando lasciare Parigi e intraprendere un viaggio per recarsi nelle terre degli infedeli, contrariato dall’ingenuità di Carlo Magno che si fida del perfido Gano di Maganza. Lungo il cammino incontra il gigante Morgante, armato con un battaglio di campana, che elegge a suo scudiero dopo averlo convertito al cristianesimo. I due cominciano le loro peregrinazioni, incontrando altri paladini, tra i quali Rinaldo, Dodone, Ulivieri, e giungono in Pagania, in Oriente, dove Rinaldo si innamora della regina Antea. Morgante, invece, incontra il mezzo gigante Margutte e vive con lui stravaganti avventure, tra beffe e abbuffate, tanto che Margutte muore letteralmente dal ridere. Dopo la morte del mezzo gigante, Morgante si riunisce a Orlando, e i due salpano con una nave che viene però colpita da una forte tempesta; Morgante traina l’imbarcazione in porto con la sua forza, ma appena giunto a riva viene morso al piede da un piccolo granchio, e muore anch’egli.
Vissute altre avventure, i paladini si riuniscono a Parigi, ed è qui che un angelo appare in sogno a Rinaldo con l’ordine di liberare la via per il Santo Sepolcro, oggetto delle scorribande del brigante Fuligatto. Ma qui la narrazione si interrompe, siamo al cantare ventitré. Cominciano allora gli altri cinque cantari, quelli aggiunti, dove si narra del re di Spagna Marsilio e della sua spedizione contro la Francia. Rinaldo e Ricciardetto, un altro paladino, tornano in Francia dall’Oriente volando, grazie a due divertenti diavoli, Astarotte e Farfarello, che si sono impossessati dei corpi dei cavalli.
Nel mentre, Gano compie l’ennesimo tradimento e stringe un patto con Marsilio, in modo da intrappolare Orlando a Roncisvalle. Da qui in poi la fonte è la Chanson de Roland; i paladini si battono da eroi, ma vengono uccisi. Prima di morire, Orlando suona il corno, richiamando così Carlo Magno che giungerà con l’esercito e sconfiggerà l’armata pagana. Scoperto l’inganno, Gano viene squartato, Marsilio impiccato. L’opera termina con la morte di Carlo, ormai sereno.
Naturalmente, i cicli letterari tradizionali che strutturano l’opera vengono abbassati, interpretati in chiave ironica, burlesca, i personaggi del ciclo carolingio non sono più ammantati di nobiltà, e non a caso lo stesso Carlo diventa un vecchio sprovveduto; le battaglie non sono drammatiche e sanguinarie, piuttosto paiono a volte inverosimili, compresa quella finale a Roncisvalle, che tutto dovrebbe essere meno che ironica. Ma Pulci utilizza il sermo quotidiano, il linguaggio comune, e così perfino nell’ultimo scontro si ha la sensazione del grottesco. Non c’è spazio per imprese eroiche, emerge una versione del mondo banale, fatta di eventi normali, quotidiani, e non trionfano più gli ideali cavallereschi, quanto piuttosto furbizia, malvagia intelligenza, ponendo fine ai valori cristiani medievali, sostituiti da primari bisogni fisiologici, come ben si evince dalle spettacolari descrizioni delle abbuffate e dei bagordi.
Margutte è poi il personaggio simbolo di questa degradazione, un vero antieroe se si pensa ai paladini cavallereschi, che si presenta pronunciando, addirittura, una parodia della preghiera del Credo; nelle parole del mezzo gigante c’è tutta la parodia letteraria, il suo linguaggio è realmente una presa in giro della tradizione, con metafore, iperboli, escamotage retorici, accumuli di termini e comico sfoggio di parole auliche e colte mischiate ad altre gergali e popolari.
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Margutte è dominato da un istinto animalesco, eppure è proprio lui a essere raccontato con più simpatia, mentre i paladini sono descritti spesso come macchiettistici. In questo modo l’opera è però ben collocata nel filone umanista che rivaluta la natura e i suoi aspetti, seppur i bisogni naturali siano bassi e superficiali. Non è da trascurare il ruolo delle donne, anche in questo caso totalmente diverso rispetto alla tradizione: l’argomento amoroso è pressoché assente, e le figure femminili sono causa più che altro di screzi e litigi, in un mondo, però, in cui ciascun personaggio è brillantemente caratterizzato, in una serie di episodi che frammentano la narrazione.
Il Morgante unisce mondo reale e mondo letterario, un’unione realizzata tramite l’espressionismo linguistico, che accoglie termini della vita comune, del fantastico, e stranieri, nonché dialettali e gergali tipici della corte fiorentina.
All’opera di Pulci si ispireranno altri autori, tra i quali Ariosto per alcuni aspetti dell’Orlando furioso, e i grandi scrittori della produzione eroicomica europea, tra cui spicca Rabelais con Gargantua et Pantagruel.
Riferimenti bibliografici
Luigi Pulci, in Storia e antologia della letteratura. Dall’Umanesimo alla Controriforma, Atlas, Tomo 2, pp. 79-92.
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