Il mistero dietro le voci del mondo. “Gli oscillanti” di Claudio Morandini
Negli Oscillanti, ultimo romanzo di Claudio Morandini, appena pubblicato da Bompiani, la storia si muove e oscilla fra due villaggi di montagna: Crottarda, in basso, e Autelor, poco più in alto. Quasi due poli opposti d’un micromondo fatto di vette e nuvole, cumuli di neve e pastori all’alpeggio.
«Le case di Crottarda non superano in altezza i due piani perché si estendono verso il basso, lungo cantine che spesso sono adattamenti di cunicoli naturali. Lì sotto, in ambienti oscuri e dalla temperatura costante, gli abitanti conservano cibo, damigiane, bottiglie, e si rintanano quando ne hanno abbastanza del freddo umido del pianterreno. […] Tutto il contrario accade a Autelor, dove gli abitanti sembrano vivere metà della loro vita sui tetti, indaffarati in mille riparazioni, in un perenne lavorio di manutenzione di grondaie, colmi e rivestimenti. Talvolta si fermano là sopra, si distendono sulle ardesie come su una sdraio.»
E non si limitano a questo: spesso gli abitanti di Autelor, che i crottardesi chiamano Quelli Là o anche i Soleggiati, si prendono gioco di chi vive a Crottarda. Si servono di piccoli pezzi di vetro come specchi ustori che posizionano in modo da bruciare gli oggetti di laggiù, nel villaggio in basso, dove le loro luci e i loro fuochi creano riverberi, generano ulcere e invidie e rabbia che inevitabilmente sfociano in rappresaglie o incursioni notturne dei crottardesi nei giardini da fiaba dei loro eterni nemici. Anche le mucche delle due fazioni/frazioni sono diverse: pigre e sonnolente le prime, più arzille e gioviali le seconde.
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A finire in questo mondo chiuso fatto di contrasti è una studiosa di Etnomusicologia, narratrice e protagonista della storia, che decide di tornare a Crottarda perché in questo paese sperduto fra i monti ci andava a villeggiare da bambina coi genitori, e ci passava le estati, in una pensione che ormai non esiste più, e dove – di notte – sentiva il misterioso canto dei pastori.
Ora è di nuovo qui proprio per questo: per studiare quei suoni e quei richiami, dietro ai quali forse si nasconde un’antica sapienza, un tentativo maldestro e primitivo di fornire una spiegazione ai misteri e al non detto del mondo che va al di là delle parole e della conoscenza, ed è riservato a chi è a diretto contatto con la natura e coi suoi segreti più profondi e ancestrali.
A guidarla, o a smarrirla, saranno i bizzarri abitanti di Crottarda, scontrosi e amichevoli a seconda del momento, ciarlieri o silenziosi a seconda di come tira il vento.
C’è il Sindaco (che non è un vero sindaco ma tutti lo chiamano ugualmente a quel modo), c’è Bernadetta che ha degli incontri amorosi con un pastore (ma forse è più di uno) che viene a farle visita di notte nella sua stanza, che comunica in modo inquietante ma anche rassicurante con quella della narratrice. C’è la signora Verdiana, «l’unica che accetti di affittare una stanza agli ospiti». C’è «un anziano grigio, con un sorriso che rivela denti scuri e irregolari»: è Amedeo, il vedovo del paese, che da quando è morta la moglie è diventato intagliatore di legno, di statuine che soltanto lui considera opere d’arte, ed è in attesa di mostrare al mondo il suo capolavoro: la statua lignea alta più di due metri che raffigura la donna della sua vita che ormai la vita gli ha portato via.
E poi c’è Fausto, di cui forse la protagonista s’innamorerà a dispetto delle voci del paese e a dispetto della relazione col suo Roberto, l’uomo che l’ha accompagnata fino a lì e con cui per quasi tutto il libro avrà contatti puramente telefonici.
Poi ci sono i Soleggiati, gli abitanti di Autelor, e infine loro, forse i veri protagonisti del romanzo: i pastori di Crottarda, su negli alpeggi che un giorno – più o meno a metà storia – lei raggiungerà dopo un’ascesa fra i boschi che ha qualcosa del viaggio mistico, un varcare una porta dimensionale che la farà ascendere ai puri canti di cui vorrebbe studiare la ragione e la storia, e che forse storia e ragione non hanno se non quelle di nascondere e svelare una realtà seconda e più profonda.
«Non ho smesso di riflettere sui canti dei pastori,» dirà a poche pagine dalla fine. «Ogni tentativo di scovarvi delle costanti, di riconoscere un codice comune, uno schema, una grammatica, è fallito. Sono però convinta che, con i loro versi urlanti e insolenti, i pastori di Crottarda, come Coribanti, hanno sempre cercato di coprire, confondere, inquinare quell’altro canto, l’espressione dolente e nascosta che giungeva dai boschi o dalle profonde cavità del suolo e che ora salmodia nella mia mente…»
Dopo aver veleggiato per anni con pubblicazioni dignitose ma nascoste e quasi segrete come le voci delle valli di questo misterioso romanzo, con Gli oscillanti Claudio Morandini approda alla grande editoria con una storia che non è di facile catalogazione. Una scrittura matura e piena, che non si lascia intimorire da quella che ormai da troppo tempo è considerata una necessità per la letteratura (almeno nostrana): una certa standardizzazione dei temi e degli stili. Cosa ci vuol dire davvero l’autore? Di cosa parla veramente questo libro? Qual è il suo centro, posto che ne esista uno?
Insegnante di Lettere e Latino presso un liceo di Aosta, l’autore sembra qui rievocare mondi che conosce bene e in cui abita con eleganza. Ma lo fa con una capacità creativa e evocativa che fa costantemente oscillare, come gli abitanti di Crottarda, il mondo sfocato in cui si muove la narratrice, dando l’impressione che ogni cosa in fondo sia incerta e vaga, come il mistero che si nasconde dietro al velo della natura, dietro al verso d’un haikuche vorrebbe replicarne gli arcani.
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Romanzo di ricerca ma non solo, testo grottesco ma con venature horror, Gli oscillanti, di Claudio Morandini, è uno di quei rari libri che si ha voglia di riprendere in mano, una volta finiti: per capire se li si è compresi davvero. E per smarrirsi ancora laggiù, o lassù, fra boschi di tronchi morti e voci di uomini più vive che mai.
Per la prima foto, copyright: Adrien Olichon su Unsplash.
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