Il milanese, lo scoglio e la macchinetta del caffè da uno: Napoli secondo Antonio Pascale
Antonio Pascale è sul palco e inizia a raccontare. Un milanese èappena arrivato a Napoli e vestito di tutto punto, con il suo completo di cotone blu e la sua cravatta rossa a tinta unita, si concede un minuto di contemplazione del Castel dell’Ovo. In mare, poco distante dal castello, una barchetta a remi con il suo pescatore lo aspetta. Per nulla indaffarato a cercare un pesce da tentare, il pescatore si è steso su un grande scoglio a prendere il sole in una giornata che il calendario insiste a dichiarar ottobre, ma Napoli accoglie come se fosse giugno. Il milanese non può resistere e si rivolge al pescatore. «Ehi, tu che fai lì senza far nulla?». E il pescatore, senza sottrarre il volto secco all’abbraccio del sole gli risponde: «Mi riposo». Il milanese insorge, invitandolo a spingere a largo la sua barca e pescare, così da poter poi vendere il pesce al mercato e fare un po’ di soldi. Il pescatore si osserva la mano, mentre lambisce l’acqua sporca, eppure accogliente del golfo e poi risponde: «E poi con quei soldi che ci dovrei fare?».
Il milanese continuerà a suggerire al pescatore nuove strade per lavorare e guadagnare e il pescatore continuerà a chiedere cosa fare con la somma ricavata da tutto quel trambusto. Dalla barca al mercantile, dal mercantile alla flotta, fino alla propria impresa ittica, il milanese si spinge fino a scenari panasiatici, pur di invogliare il pescatore napoletano a prendere in mano il proprio destino. Ma il pescatore continua a chiedere: «E poi con quei soldi che ci dovrei fare?». Alla fine il milanese, infastidito da tanta resistenza e dal sudore che quell’implacabile sole partenopeo gli fa produrre a fiumi sotto il vestito sartoriale, sbotterà in un «Alla fine, con tutti quei soldi ti potrai godere la vita». Il pescatore sorriderà, smorfia di superiorità necessaria a sopravvivere a Napoli, e risponderà: «E io mò che sto facendo?».
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Questa barzelletta, che tanto barzelletta non è, lo scrittore Antonio Pascale l’ha narrata in un incontro dell’ultimo Pordenonelegge a un pubblico di “nordici”, venuti ad ascoltare l’idea che ha di Napoli uno scrittore partenopeo. Ebbene niente vicoli ritorti e persone sedute su sedie di paglia, niente pino e niente Vesuvio, niente mandolino, pizza, laissez-faire e sorriso amaro. Con il suo rotacismo morbido e accogliente, il piede sempre premuto sul palcoscenico dell’auditorium, come se dovesse scattare da un momento all’altro per correre i cento metri, e le mani larghe, le dita tese verso il pubblico per acchiapparlo all’amo delle sue parole, Antonio Pascale ha presentato una Napoli richiusa su se stessa e le sue vecchie glorie, che, come l’Italia intera, si assolve e si accetta per quel che è sempre stata e che forse già non è più, pur di non guardare a ciò che potrebbe essere se si aprisse all’altro, milanese, tedesco o nord africano che sia.
Pascale è stanco di veder identificata la sua città con un gruppo di bricconi capaci di godersi la vita e il qui e ora molto più degli altri e per questo convinti sotto sotto di essere migliori. È stanco di vivere in un Paese che non sa esistere senza smartphone dell’ultima generazione ma, quando deve prendere una decisione sul suo futuro, continua a guardarsi indietro, ad aver paura del confronto, a usare la vecchia moka da una tazza, per convincersi che intorno non c’è nessuno con cui dividere il proprio caffè. Ma intorno le miscele proliferano e le persone che vogliono quel caffèaumentano e sono disposte a usare ogni possibile forma di macchinetta del caffèper digerire la loro giornata.
Alternando spezzoni degli anni ’80 di interviste di Massimo Troisi e ricordi della sua famiglia, Antonio Pascale ha messo a nudo le velleità di un popolo, le sue paure e le sue divisioni. I muri, che dividono la Posillipo degli eletti dai quartieri spagnoli di tutti gli altri, si stanno ispessendo e non è girandosi dall’altra parte che scompariranno. In un’Europa dove i muri e le trincee appaiono dal nulla come gonfiabili per feste riservati a un'élite di conservatori di una superiorità presunta o fortuita, il milanese e il pescatore napoletano sembrano guardarsi sempre più in cagnesco, non ricordandosi che, in fondo, il loro obiettivo era di riposarsi. Antonio Pascale docet.
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