Il Messico scottato dall’arte. “Salvare il fuoco” di Guillermo Arriaga
Guillermo Arriaga è oggi uno degli intellettuali più importanti in Messico. Non scrive soltanto romanzi, ma anche sceneggiature (tra cui quelle per l’ormai famosissimo González Iñárritu, tra cui Amores Perros e Babel), e si occupa di regia.
Il romanzo pubblicato da Bompiani nelle scorse settimane è molto corposo (quasi novecento pagine) e s’intitola Salvare il fuoco (traduzione di Bruno Arpaia). La storia è ancora una volta fatta di contrasti, di violente contrapposizioni, scenario privilegiato per la società messicana dove la ricchezza estrema e la più dura povertà convivono a pochi passi (si pensi anche al film Roma di Alfonso Cuaròn o alle pellicole che parlano del mondo narcos e della corruzione che pervade e infetta tutti i gangli sociali).
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Il personaggio principale del romanzo è José Cuauhtémoc Huiztlic; era stato imprigionato per aver dato fuoco a suo padre che si ritrovava su una sedia a rotelle perché già colpito da un’emorragia celebrale, il quale aveva devastato la vita dei propri figli a forza di disposizioni dittatoriali, soprattutto disumane. Il padre era un indio e aveva vissuto una vita difficile, perché il potere era sempre stato nelle mani dei bianchi. Comunque, era diventato, proprio grazie alla propria volontà e testardaggine, presidente della società di Storia e Geografia. A un certo punto José prese una tanica di benzina e la versò sopra la figura oramai già quasi spenta del genitore. Così lo ricordava Francisco, il fratello di José, la terza voce di questo romanzo:
«Non abbiamo resistito alla mareggiata delle tue umiliazioni e dei tuoi rimproveri. Non così José Cuauhtémoc. È rimasto incolume alle tue ramanzine e alle tue botte. Ti sfidava con i suoi silenzi. Lui sì che poteva risponderti nella lingua materna. Lui sì che poteva discutere con te dei Dialoghi di Platone o della Critica della Ragion Pura. E così come hai nutrito la sua condizione di figliol prodigo, hai alimentato il suo odio da carnefice. Per anni ha accumulato il rancore che l’ha portato a darti fuoco.»
José Cuauhtémoc è una specie di vichingo, con il corpo atletico e i capelli biondi molto diverso dal padre e dai fratelli. Uscito dalla prigione cerca di ritrovare il Macchina, con cui avevo stretto amicizia dentro il carcere. Il Macchina era tarchiato, aveva avambracci larghi e mani forti; nella mala aveva iniziato a riparare motori per poi cominciare a giustiziare commercianti che non volevano pagare il pizzo. Lui aveva invitato José ad andare da lui, a Ciudad Acuña, quando fosse stato libero.
La vita in quella località sembrava andare per il meglio, ma poi ci fu uno scontro sanguinoso tra bande di narcos, nelle quali anche il Macchina venne coinvolto. José, vista la malparata e la fuga del suo amico per la Sierra, decise di fare una visita alla sua donna, l’appetitosa Esmeralda, che nelle intenzioni del fidanzato non poteva però guardare né visitare. Il Macchina era decisamente geloso, una gelosia molto shakespeariana. La donna non solo fece entrare l’uomo a casa sua, ma gli permise perfino di scoparla a sangue diverse volte. Il suo scopo era quello di sapere chi erano i colpevoli della fine del Paradiso che stava cominciando ad assaporare in quelle terre: un adolescente con le voglie di un narcos fatto e finito, il Patotas, che aveva ucciso il capo dei Narcos del Macchina, Don Joaquìn, e il nuovo poliziotto del territorio, Galicia, che appena arrivato nella località aveva cominciato a fare il doppio gioco con un’ingordigia sfrenata. Naturalmente José venne ben presto incarcerato e da lì ha inizio una nuova vita, a contatto con uno scrittore che era stato incarcerato:
«Un pomeriggio si chiuse nella stanza dove c’erano le macchine da scrivere. Cominciò a pestare sui tasti. Il tic tic lo faceva sentire in compagnia. Era come ascoltare una stazione radio senza radio. Borbogliava una cartella dopo l’altra. Una sorgente di parole senza rubinetto per chiuderla. Tutti i pomeriggi. Tic tic. Cartella dopo cartella… Passava ore senza dormire, a rimuginare sul testo. Questa frase via, questa rimane, questa parola no, questa sì. E il giorno dopo, a riportare i cambiamenti a macchina. Metti, togli, vai, elimina, modifica.»
L’autenticità di José farà perdutamente innamorare Marina, una coreografa, proprietaria della compagnia “Danzamantes”, che accetta di portare l’arte in un posto che per lei, esponente dell’alta borghesia messicana, era quanto di più lontano ed estraneo. Vive con un marito e tre figli, ma ha paura non appena attraversa i quartieri sottoproletari della capitale, come aveva ben interpretato José in uno dei suoi scritti, dal titolo “Manifesto”. Marina è alla ricerca di qualcosa di autentico, anche nella sua produzione artistica, perché i suoi spettacoli non avevano la passione e la sensibilità di una danzatrice africana da lei molto amata, Biyou, una coreografa senegalese. José sarà per lei il fuoco che aspettava e che le farà dimenticare tutte le cose tranquille fino allora vissute. A ostacolare la loro unione c’è il Macchina, che ha dovuto uccidere la sua donna, dopo che qualcuno in paese aveva fatto la spia. La sua gelosia di tono shakespeariano è senza confini, deve mettere le mani su Josè e sulla sua compagna, fino a far spegnere la sua sete di vendetta.
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Salvare il fuoco è un romanzo torrenziale, a volte anche noioso soprattutto negli infiniti scontri tra le bande rivali di narcos e nella descrizione della corruzione messicana, ma il finale è comunque toccante, o forse sarà che sono uno stupido romantico che crede al fuoco della creazione e dell’amore, la vera creazione che se ne fotte di questi tempi artisticamente troppo imbolsiti.
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