Il male e la sua verità. Intervista ad Antonio Moresco
Dopo Gli esordi, i Canti del caos e Gli increati, ecco L'addio, il nuovo romanzo di Antonio Moresco, che con questo libro cambia editore e passa a Giunti.
Siamo di nuovo nel mondo personalissimo e visionario dello scrittore, che torna a parlarci della sua principale ossessione, quel rapporto tra vita e morte, già tratteggiato nei suoi romanzi precedenti in due mondi – la città dei vivi e la città dei morti – che qui si rivelano sorprendentemente in comunicazione tra loro.
Il protagonista, D’Arco, è un poliziotto, morto in azione, che viene richiamato in servizio dai suoi colleghi del mondo dei vivi per cercare di fermare uno spaventoso massacro di bambini, di cui nessuno sembra in grado di scoprire autori e mandanti.
Muovendosi insieme a un bambino muto, che porta sul corpo segni di violenze subite e che comunica con lui solo scrivendo di tanto in tanto poche parole dove capita, D’Arco attraversa la sterminata città dei vivi, che non è per nulla diversa dall’altrettanto enorme città dei morti, assiste a scene di puro orrore ed è costretto a porsi molte domande, spesso destinate a rimanere senza risposta, mentre nei suoi pensieri si affacciano a tratti i ricordi della vita precedente, degli amori vissuti, delle persone incontrate.
Senza svelare altro della trama, possiamo dire che con L’addio Moresco sceglie di cimentarsi con un genere per lui del tutto inconsueto, quello del romanzo poliziesco. Essendo però uno scrittore molto originale, lo fa in una maniera personalissima, che piacerà senza dubbio a coloro che hanno già letto e apprezzato i suoi libri recedenti, ma che potrebbe suscitare qualche perplessità nei cultori dei classici romanzi gialli e noir, così come le frequenti descrizioni di stragi e massacri, che virano decisamente allo splatter, potrebbero colpire in modo non del tutto favorevole i lettori.
Abbiamo parlato de L’addio con l’autore durante la prima presentazione milanese del romanzo, nella sede della casa editrice Giunti.
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Nella prefazione al libro lei racconta di aver avuto la prima ispirazione per scriverlo durante una vacanza in Sardegna. Ci può dire cosa ha fatto scoccare la scintilla iniziale?
Stavo facendo una camminata in Sardegna, e la prima immagine che mi è venuta in mente è stata quella di una città con dei bambini che cantavano all’interno dei grattacieli. Da lì poi è arrivato tutto il resto.
L’anno scorso, alla presentazione de Gli increati, ha dichiarato che il suo discorso sulla vita e la morte era concluso, e che perciò quello sarebbe stato il suo ultimo libro. Cosa le ha fatto cambiare idea e tornare sull’argomento?
Io non sono padrone in casa mia: a volte mi metto in testa una cosa, ma poi vengo costretto a cambiare idea. In tutta sincerità, al termine de Gli increati pensavo che avrei taciuto a lungo, come scrittore, ma evidentemente ognuno di noi ha dentro di sé un tumulto, che nel caso di uno scrittore si trasforma in idea, in narrazione. Per quanto riguarda la vita e la morte, io continuo a pensare che la conclusione de Gli increati sia insuperabile, e non si possa aggiungere altro sull’argomento. Infatti L’addio inizia “prima”. Il protagonista non sa nulla di ciò che lo aspetta, è chiuso in una cecità profonda.
Questo libro è presentato come appartenente al genere poliziesco, perciò volevo chiederle se la classificazione di un libro secondo un “genere” ha più senso per lo scrittore, per il lettore, o per chi lo deve collocare in uno scaffale della libreria.
Dal mio punto di vista, questo ha poca importanza. Il personaggio di Laszlo compariva già nei miei libri precedenti, e già nei Canti del caos c’erano lunghe parti narrative di azione. Io non ho mai disdegnato le scritture di genere: proprio nei Canti del caos ho fatto un lungo elogio di Salgari, che è l’autore su cui ho imparato a leggere, di nascosto, quand’ero in seminario da ragazzino e tenevo il libro proibito sotto il banco.
Ho sempre letto romanzi polizieschi. I loro protagonisti per me sono gli eredi poveri dei cavalieri erranti, perché vanno in giro per il mondo a riparare i torti e a combattere il male. Con D’Arco ho espresso il mio bisogno di entrare in un personaggio di questo tipo, forzandolo ed estremizzandolo ai fini della storia.
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Cosa rappresentano realmente i bambini che cantano, presenza costante nel romanzo?
Io volevo parlare del male: a volte si ha l’impressione che domini il mondo, e il peggior crimine è quello che si può compiere contro i bambini, perciò ho scelto di parlare di loro. E poi ogni bambino per gli adulti rimane misterioso, incarna un enigma, per questo mi è piaciuto anche il personaggio del bambino silenzioso gettato nella mischia.
Il bambino che fa da guida al protagonista sembra essere simbolicamente muto per l’impossibilità di parlare, anche se poi scrive ciò che pensa sui muri: qual è la funzione del dire o dello stare in silenzio, raccontando un mondo che si sta fagocitando?
Ho usato questa soluzione delle parole tracciate perché mi sembrava di dover uscire dalla gabbia del linguaggio: quelle parole dovevano avere un’evidenza diversa all’interno della pagina, per avere più forza. Volevo essere io, fisicamente, a tracciarle sul foglio. Mi sembra che certe volte per dire di più devi dire di meno, sottrarre per aumentare la forza delle idee.
Porre al centro del libro un personaggio muto, che si esprime rompendo la gabbia della comunicazione normale, mi serve a dare una maggiore importanza e peso al messaggio. Questa cosa, in realtà, ce l’ho in testa da parecchio tempo. Diversi anni fa ho fatto un lavoro teatrale su Santa Teresa di Lisieux, che moriva di tisi nel suo convento: lei era l’unico personaggio muto del dramma, stava nel letto col capo bendato e queste bende diventavano sempre più rosse di sangue fino alla sua morte, mentre attorno a lei parlavano tutti gli altri personaggi. Esordire nel teatro mettendo un personaggio che si esprime col mutismo e col sangue mi sembrava un’idea forte. In questo libro succede un po’ la stessa cosa.
A proposito del linguaggio che usa, mi ha colpito, ad esempio, la frequenza del termine “sbudellato” riferito a più cose.
Io ho bisogno di un linguaggio teso. A volte le parole vengono usate a scopo connotativo, per mandare avanti la storia, come se non fossero un tessuto vivo e pulsante. Per me non devono essere un semplice tessuto connettivo inerte, ma un muscolo. “Sbudellato” è un termine forte, ma viene anche dalle mie origini mantovane, dal fatto che la sola lingua che conosco, a parte l’italiano, è il dialetto mantovano, nel quale questa parola ricorre con molta frequenza e con più significati.
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Nell’introduzione, lei afferma che i rapporti umani sono diventati abietti. Cosa pensa della ferocia presente nella società contemporanea, in cosa siamo davvero peggiorati?
Questa preoccupazione profonda è una sottotraccia del libro. Anche il male ha una sua verità da dire, che in questo caso è soprattutto questa: voi uomini credete di fare qualcosa di diverso, ma state divorando le condizioni di vita e il mondo che verrà dopo di voi. Noi, in effetti, stiamo mangiando le risorse per le generazioni future, noi come specie umana uccidiamo e divoriamo i bambini delle generazioni future Credo di non dire una cosa estremizzata, ma cerco di mettere noi stessi, la nostra specie e i nostri modelli di vita, davanti a uno specchio.
Siamo sotto il giogo di un’idea totalitaria che vede l’economia come unica dimensione, cosa mai successa prima: in passato, l’economia era solo una delle componenti della società. La mancanza assoluta di scrupoli fa della cupidigia, proprio quella dantesca, ciò che regge il mondo contemporaneo.
In questo libro si avvertono delle influenze dei classici: il bambino che accompagna il poliziotto D’Arco sembra un Virgilio nell’inferno del mondo contemporaneo, mentre certe osservazioni su “amore e sentimenti, chiacchiere e inganni che hanno chiamato civiltà” mi hanno fatto pensare a Leopardi. È così?
Per quanto riguarda la letteratura, è certo che Leopardi ha avuto una grande importanza per me, anche perché l’ho letto in un periodo difficile della mia vita, tant’è vero che ho lasciato scritto, per quando verrà la mia ora, di mettermi in tasca il mio vecchissimo libriccino dei Canti leopardiani per accompagnarmi alla cremazione. Io m’illudo che la letteratura possa arrivare a dire ai lettori quelle cose che non trovano altrove.
Nei miei libri io cerco di far parlare tutti i personaggi, anche quelli negativi. Ognuno dice la sua verità, ma io non sono portavoce e cantore dei personaggi negativi, voglio solo mettere in scena il nichilismo diffuso del nostro tempo.
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Perché ha scelto di affrontare il discorso della lotta al male in questa allegoria e non in modo diretto, in una formula che forse potrebbe arrivare meglio al lettore?
Io non la vivo come allegoria, e credo anche che in molti scrittori del passato i confini tra realistico e allegorico siano indistinguibili. Zola che scrive Germinale, per esempio, da un lato racconta il realismo della vita dei minatori, ma dall’altro esprime anche una potente allegoria, moltiplicando tutto con la potenza visionaria, che però non rende meno vera la parte documentaria. Non credo che una storia “vera” sia necessariamente “più vera” di una che viene considerata allegorica. La metamorfosi di Kafka mi dice cose profonde sulla vita più ancora che se lui avesse raccontato in modo realistico la vita del protagonista. Quando ho letto Memorie del sottosuolo di Dostoevskij ho immaginato che Kafka le avesse lette e prese sul serio, trasferendole nel suo romanzo e traendone una verità superiore.
Spesso sono giudicato uno scrittore allegorico, ma io racconto solo per filo e per segno le mie ossessioni. La realtà rimane sempre meno conoscibile di quello che pensiamo, anche quando crediamo di essere realistici.
Una di queste sue ossessioni è senz’altro il ribaltamento dei piani tra vita e morte.
Sì, io metto in corto circuito le nostre idee di vita e di morte, ma è anche la nostra società a farlo, visto che adesso non si riesce più a morire. Ma quella che si realizza con la tecnologia, cercando di allontanare il più possibile il momento del decesso, in realtà non è un allungamento della vita, ma della condizione di morte.
La nostra cultura ha terrore della morte e cerca in tutti i modi di allontanarci da essa, ma questa per me rappresenta la più totale mancanza di libertà: se temi la morte, non sei libero di vivere.
La letteratura ci permette quindi di aprire spiragli più potenti verso la conoscenza?
Ci sono tante forme di espressione, oltre alla letteratura, che ci aprono alla conoscenza: pensate solo alla musica, al disegno, al cinema. Ma io disponevo solo di un quaderno e una penna, e ho usato queste. Per me la letteratura è una forma di espressione più agile e più elementare, perché non necessita delle strutture complesse che servono, ad esempio, a realizzare un film.
Un libro però concede una libertà maggiore delle altre forme: leggendo immagini le cose in una maniera tua personale e non identica agli altri, mentre il cinema ti imprigiona in una visione precisa, quella del regista. I volti dei personaggi sono quelli degli attori, e non quelli che potresti immaginarti.
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Un commento sulla partecipazione di L’addio al Premio Strega?
Sono presente perché mi ha chiesto di partecipare Antonio Franchini, una persona che stimo molto, e che ha creduto in me quand’ero nella situazione in cui i miei libri non interessavano a nessuno. Io non farò nulla di particolare, non farò discorsi. Gli autori sono lì, mi piace la natura molto “moschettieresca” che ha questa mia presentazione al premio.
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