Il libro di Alessandro Cortese, un riconoscimento a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Un paesino della Sicilia, volutamente indefinito perché la mafia è ovunque, in un’estate torrida è lo scenario dell’ultimo avvincente e pedagogico romanzo di Alessandro Cortese, La mafia nello zaino, edito dalla giovane e promettente casa editrice Il ramo e la foglia edizioni.
Mi piace nelle mie recensioni partire dalla copertina, che in questo caso ha particolarmente colpito la mia immaginazione, sì da rimanere a osservarla per qualche minuto. Si tratta dell’illustrazione di Giulio Rincione: un bambino in bicicletta con uno zaino che osserva incantato (il viso non si vede, il disegno è il di spalle, ma si intuisce la fascinazione che subisce) il teatro dei Pupi, sul cui palcoscenico c’è un nano a sinistra con un bastone e a destra un braccio con la pistola. L’assassino rimane nell’ombra, sì perché la mafia è questo nemico occulto difficile da smascherare. Il bimbo, il nano, l’assassino è infatti il sottotitolo del romanzo, uscito da poco.
L’ho letto, nonostante il Covid, e ho passato quattro ore in piacevolissima compagnia, imparando oltre che divertendomi: dai libri sulla mafia c’è sempre qualcosa da imparare; e questo di Alessandro Cortese lo fa con una delicatezza e sobrietà unica, mettendoci di fronte alla sicilianità, come a una forma mentis di cui è impossibile liberarsi, perché della Sicilia non ci si libera, ovunque si vada: «…fui come trascinato verso il fondo, lontano lontano, in un posto che era quello in cui avevo sempre vissuto ma che un altro da cui non si poteva uscire perché nessuno avrebbe potuto farlo. Eravamo tutti chiusi nello stesso luogo: se avessimo provato a fuggire, la Sicilia stessa ci sarebbe rimasta dentro e non ci avrebbe mai permesso di farlo veramente».
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A parlare è il picciriddu di dieci anni che racconta in modo auto-diegetico la mafia vista dagli occhi di un bambino. La morte del suo amico Giulio, trovato con le mani mozzate, come apprende dalla «Gazzetta del Sud», che si procura in modo rocambolesco, è l’input della sua ricerca: esiste la mafia? Questo è l’oggetto della sua indagine curiosa, che si dipana con l’ingenuità di un bimbo che, travolto da eventi più grandi, è costretto a diventare adulto prima del tempo. Le violenze vissute in famiglia (il padre picchia sovente la madre) descritte con l’opportuna crudezza, perché il romanzo è di denuncia anche delle vessazioni subite tra le mura domestiche, lo rendono un bambino di eccezione, sensibile e curioso, disposto ad andare in fondo alla sua indagine sulla mafia, anche a costo di guadagnarci un sacco di botte. Di botte ne riporta, dal padre, che nega l’esistenza della mafia, perché coinvolto, dalla madre, che, pur anelando alla libertà, vuole proteggere il figlio, dalla gente del paese, che sostiene, chiudendosi nell’omertà, che la mafia, invenzione del Nord, vuole infangare il buon nome della Sicilia.
In questa estate afosa, il picciriddu, girando in bicicletta, vuole smascherare i responsabili della morte di Giulio, ucciso con le mani mozzate perché questo è il destino dei ladri, e anche di quell’altro morto, l’avvocato, che ha visto a terra intriso di sangue, dopo aver sentito un boato dalla sala giochi. È un’escalation di omicidi e violenze, su cui indaga il giudice Falco di Giovanni, pervaso dal senso del dovere e della giustizia. Lo vediamo parlare con l’amico Paolo, venuto da Roma, sui meccanismi della mafia e sulla sua organizzazione a macchia d’olio che arriva fino a Roma. Chiaro riferimento ai giudici Falcone e Borsellino, di cui si vuole onorare la memoria, che rappresentano un varco nella maglia che stringe, un faro di luce in un’atmosfera tenebrosa e malata, uno spiraglio di speranza, anche quando tutto sembra perso.
La mafia, di cui tutti negano l’esistenza, tranne padre Pippo, è questo cancro che ammorba non solo la Sicilia, ma tutta l’Italia, innestandosi nei centri di potere. L’omertà dei compaesani, il girare continuamente gli occhi altrove sono ben interpretate dalle tre comari onnipresenti: Triulu, Malanova e Scuntintizzu che il bimbo ritrova anche inginocchiate in chiesa, mentre si reca ad avere lumi sulla mafia da padre Pippo. Questi ammette l’esistenza della mafia e conosce i nomi di tutti i mafiosi, ma è legato dal segreto professionale. Tuttavia diventa un punto di riferimento per il picciriddu che, visto il coinvolgimento della sua stessa famiglia in questa enorme macchina, diventa grande anzitempo e diventato adulto decide di raccontare cosa mai sia la mafia e quanto essa sia perniciosa. Ho volutamente saltato il contenuto della parte centrale del libro per non spoilerare, perché è soprattutto nel centro del romanzo che si infittisce il plot, travolgendo il lettore sospeso nell’attesa del prossimo evento.
Un bimbo, una madre vittima delle violenze del padre, colluso con la mafia, fanno questo triangolo famigliare da cui partono le vicende e a cui tornano. Meno male che c’è quel faro dei giudici Falcone e Borsellino a illuminare la strada della giustizia; il che ci permette di girare lo sguardo altrove e di intravedere una luce di speranza in un’estate calda e cupa, in un paesino travolto dai meccanismi del potere e incapace di sollevare il capo, vestendo una maschera, quello delle scimmie, che non vedono, non sentono, non parlano.
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Tutti siamo mascherati: questo il picciriddu l’ha appreso anni addietro assistendo alla rappresentazione di Pirandello di Uno, nessuno, centomila. Abbiamo non un io, ma tanti io, a seconda del punto di vista. Tutti recitiamo un ruolo in questo immenso palcoscenico che è la vita. Proprio quelli che dovrebbero far rispettare la giustizia sono i più collusi con la delinquenza organizzata e quel padre si rivela ben diverso da quanto il picciriddu sperava che fosse.
Un libro, tra italiano e dialetto, sciolto con note a piè di pagina, scritto in modo magistrale, mettendosi nei panni di un bambino, che è un grido di dolore di un autore siciliano, nato a Messina, che apre al contempo scenari di speranza. Se tutti fossimo come picciriddu, che ama davvero la sua terra, forse riusciremmo a debellare questa piaga e a risollevare il capo dalla fetida onda.
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