“Il libro delle mie vite” di Aleksandar Hemon
Si definisce «un groviglio di domande insolubili, un coagulo di vari altri», di certo è uno dei più significativi scrittori in circolazione. È Aleksandar Hemon, autore dell’agile e densissimo Il libro delle mie vite (Einaudi, 2013, traduzione di Maurizia Balmelli), nato a Sarajevo nel 1964 e cittadino di Chicago dallo scoppio della guerra in Bosnia nel 1992, già autore, tra gli altri, del bellissimo Il progetto Lazarus. In questo memoir autobiografico racconta la sua vita tra la Sarajevo multietnica dell’infanzia e la nuova patria statunitense, attraverso le avvisaglie di guerra ‒ quell’«era breve dell’euforia da catastrofe» ‒ e poi lo scontro violentissimo dei primi anni Novanta, la guerra civile che fece deflagrare i Balcani. Uno scontro dalle radici antiche, con precise motivazioni politiche ed economiche, alimentate da mitologie nazionaliste che coinvolgevano persone fino ad allora vicine, addirittura modelli di cultura come il professore che gli aveva fatto amare Shakespeare e Montaigne e riflettere sulla letteratura, diventato poi un ideologo di Karadžić: «Il professor Koljević diventò la mia ossessione. Continuavo a cercare di mettere a fuoco l’istante in cui per la prima volta avrei potuto notare la sua inclinazione al genocidio» annota Hemon. E, senza pesanti solennità, con stile asciutto e scrittura curatissima, con l’ironia che solo chi ha vissuto davvero una tragedia riesce a utilizzare efficacemente, ci fa camminare per la Sarajevo isola di pace degli anni Ottanta e in quella martoriata dalla guerra, dove neanche lui camminava perché nel 1992, allo scoppio del conflitto, si trovava in America, da dove non fece ritorno, se non anni dopo, per commentare al rientro «di ritorno da casa, tornavo a casa», quella Chicago di cui in un gustoso capitolo elenca le ragioni per cui non la lascerebbe.
Scrittore apolide e con un profondo senso delle radici, Hemon ci aiuta a riflettere proprio sugli esiti perversi delle categorizzazioni esclusive, perché «nell’istante in cui additi una diversità, ti addentri, a prescindere dalla tua età, in un sistema di differenze preesistente, una rete di identità, tutte fondamentalmente arbitrarie e indipendenti dalle tue intenzioni, nessuna delle quali oggetto di una tua scelta. Nel momento in cui alterizzi qualcuno, alterizzi te stesso» e tutta la sua letteratura discende da questo, dal bisogno di raccontare una storia per fissare dei punti fermi: «la persona sradicata si batte per una stabilità narrativa – ecco la mia storia! – ricorrendo a una sistematica nostalgia». Scorrono così pagine di notevole letteratura, dalla nascita della sorella alle partite a scacchi con il padre, dal viaggio in Italia alle partite di calcio con improbabili compagni di squadra, dai cani vagabondi alle esperienze in radio, quando inventa un personaggio di cui scrive la storia come se fosse realmente esistito e come tale viene recepito, efficace metafora dell’ubriacatura mitologica che pervaderà la Jugoslavia pochi anni dopo, ma anche e soprattutto del potere performativo del linguaggio.
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Linguaggio che sarà l’unico argine al dolore inimmaginabile della perdita di una figlia piccola: «Una delle credenze religiose più meschine è che la sofferenza nobiliti, che sia una tappa lungo il cammino verso qualche forma di illuminazione o salvezza. La sofferenza e la morte di Isabel non hanno fatto niente per lei né per noi né per il mondo. L’unico esito importante della sua sofferenza è la sua morte. Non abbiamo imparato alcuna lezione che valesse la pena imparare; non abbiamo acquisito alcuna esperienza che possa giovare a chicchessia. E Isabel non è certamente ascesa a un posto migliore per lei del seno di Teri, del fianco di Ella o del mio petto», ma «l’immaginazione narrativa – e quindi la letteratura – è uno strumento evolutivo fondamentale per la sopravvivenza. Elaboriamo il mondo raccontando storie e produciamo conoscenza umana stringendo legami con dei noi immaginati».
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