Il lavoro che (non) c’è?
Il dato più recente dell’Istat sull’occupazione italiana, dato trimestrale dunque stagionale, parla di un calo del 77 per cento delle assunzioni lunghe (a tempo indeterminato) rispetto al medesimo trimestre dell’anno passato.
Il confronto tra trimestri è pericoloso quando le economie viaggiano a vele spiegate, ma torna utilissimo quando sul campo di battaglia della crisi contiamo i morti e i feriti. In ogni famiglia italiana media c’è almeno un precario, un disoccupato, una persona a rischio di povertà. È la mancanza di lavoro che produce tutto questo, nonostante siano state introdotte misure volte a sostenere gli investimenti privati (come il Quantitative Easing) e ad alleggerire gli oneri fiscali sul lavoro (come il Jobs Act). Queste misure non sono bastate, e la nostra economia nazionale soffre di un calo di credibilità sui mercati esteri e di un calo della domanda interna che provoca deflazione inarrestabile, pessimismo e tanta, tanta tristezza diffusa.
Tutto questo sta però portando a una selezione economica quasi naturale. Una specie di mano invisibile sta facendo piazza pulita delle imprese meno adatte alla crisi: quelle non sostenute dalla finanza criminale e quelle che pensano ancora di potercela fare come un tempo.
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Il mercato imprenditoriale si sta dividendo: da una parte i fan della ripresa a ogni costo, dell’aumento dei consumi, dell’economia di un tempo; dall’altra chi pratica impresa solidale, dà lavoro, costruisce comunità dentro opportunità economiche circolari.
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Tutto ciò si accompagna alla più rapida diffusione di contenuti, anche editoriali, meno consumistici, meno patinati, più vicini al realismo di cui necessita la società. Dove si produce lavoro, infatti, è proprio dove il fordismo novecentesco della fabbrica incrocia il realismo post-moderno, la robotica, la scienza applicata alle nuove tecnologie, il giornalismo digitale. È lavoro fluido, sicuro!, ma non meno impegnativo o stancante.
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Non è lavoro garantito, perché anche la tutela sindacale necessita di rimodularsi velocemente. Non è lavoro salariato, e qui l’assenza di un welfare pubblico adeguato pesa tutta sulle spalle delle nuove generazioni. In fin dei conti, il lavoro c’è, eccome, ma manca quella forma di tutela e di attivazione alla costruzione comunitaria delle opportunità di welfare che sempre hanno funto da paracadute in tempi di crisi. Ce la fanno, a differenza nostra, quei Paesi nordeuropei che all’impoverimento hanno risposto con più stato sociale e più lavoro nei servizi. Se non ci adeguiamo, noi rischiamo di perdere quel poco di lavoro che ancora c’è.
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