Il laureato sfruttato – Abù, lo schiavo agronomo
Cosa sta accadendo nel sistema produttivo italiano? Perché la manodopera più scolarizzata viene progressivamente ridotta a merce a basso costo?
Mi trovo nel potentino, a Boreano per la precisione, dove nelle vecchie case della riforma agraria – memoria dell’ingloriosa fine delle lotte bracciantili della seconda metà del secolo scorso – vivono nugoli di immigrati fantasma, gestiti da un solo grande caporale sudanese di cui ho parlato anche in Ghetto Italia. In questo territorio la mafia del caporalato è evidente, concreta, feroce…
Incontro Abù, un ghanese che vive qui, davanti alla bocca di mattoni di una di quelle case.
«Ciao», mi saluta sorridendo e, dopo, sbadigliando.
«Dormivi? Scusa per l’intrusione»
«No, non dormivo. Sono sempre stanco…», fa con una punta di rassegnazione nella voce.
«Sei Abu, vero?»
Annuisce e mi invita ad entrare. Nella casa materassi per terra, coperte avvoltolate su un lato della camera, qualche pentolino: odore di muffa, sudore, pipì.
Sediamo su una branda e Abu si arrotola una sigaretta, poi se la gioca un poco tra le dita, come un bambino.
«Sei un bracciante?», gli domando.
«Di più. Sono un agronomo»
«Un agronomo?!»
«Mi sono laureato in Francia, ma là non c’è molto spazio per uno che vuole andarci a vivere. La Francia è cara, amico mio. Allora sono venuto in Italia. Ma non mi sono trovato mai un lavoro da agronomo»
«Cioè? Nessuno ti ha mai assunto come agronomo?»
Fa di no con la testa e mi dice che in realtà non è stato mai assunto e basta. Trascorre la sua vita peregrinando da una regione all’altra, a seconda della stagione e della raccolta, abitando nei ghetti sparsi in tutto il Paese. È al soldo di tre caporali, il più feroce è il sudanese che vive a poche centinaia di metri da questa casa dove siamo adesso.
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«Non hai mai fatto l’agronomo?»
«Lo faccio sempre. Mi usano. Non sono fessi. Io so se una raccolta va fatta adesso o più avanti. Discuto con i contadini e spesso mi danno ragione. Ma sempre qua vivo, sempre qua sto. Mi arrangio», dice e si accende finalmente la sigaretta.
Il sistema agricolo italiano non è tra i più evoluti al mondo, nonostante abbia delle potenzialità produttive e occupazionali molto ampie. È un sistema che si fonda sulla rendita parassitaria o su una industrializzazione a macchia di leopardo. Nulla a che vedere con il sistema statunitense, dove la riduzione dei passaggi tra raccolta, trasformazione e consumo del prodotto favorisce dinamismo e produttività, reddito e occupazione.
«Hai mai provato a far valere il tuo titolo di studio?»
«La mia laurea vale. Certo che vale! Ma non me la pagano. Facevo meglio a stare zitto. Quando ho detto che ero laureato in agraria, il caporale mi ha messo alla prova. Quando si è accorto che sono bravo, mi ha portato da un produttore qua vicino e quello mi ha messo a lavorare su delle piante malate. Abbiamo risolto il problema, ma io resto un bracciante»
E già. Abù resta un bracciante. Il suo ruolo, quello socialmente riconosciuto, è di ultima ruota del carro agricolo: di pedina fantasma nel sistema dello sfruttamento. Penso a quanti laureati italiani e stranieri vivono in una condizione simile a quella di Abù: intelligenze negate, competenze sfruttate e sottopagate, cervelli schiavizzati da un’Italia senza prospettive.
«Grazie mille, Abù», gli dico alzandomi.
Abù mi sorride e mi accompagna alla porta. Un’ultima stretta di mano e sono fuori. In lontananza spicca sull’orizzonte una casa gialla: lì dimora il più potente caporale della Lucania. Ci passo davanti, alla finestra qualcuno mi osserva senza troppa attenzione. Accelero e mi dirigo verso Matera. Addio, Abù, ti auguro di usare la tua laurea fuori dalla schiavitù italiana.
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