Il lato violento della bellezza. Intervista a Rosa Ventrella
È un romanzo denso, ci si muove tra le pagine in punta di piedi, rispettosi della storia che prende vita con una scena calzante, carica dal punto di vista emotivo. C’è un momento nella vita degli esseri umani in cui ai figli viene richiesto di confrontarsi con la fragilità dei propri genitori, di contro, con la propria. È un momento di grande intensità: difficile sottrarsi alle immagini che si coagulano nella mente mescolando ricordi e emozioni.
Benedetto sia il padre è questo tuffo in mezzo alla vita, alle sue contraddizioni, ai suoi perché. Uscito per Mondadori, in questo romanzo Rosa Ventrella dimostra di essere una guida accorta che conduce il lettore tra le ferite e le gioie di una famiglia, anzi di una figlia che ha il coraggio di fare i conti con i propri sentimenti.
Se sia una vicenda autobiografica, o quanto di autobiografico vi sia nel romanzo, del rapporto tra i genitori visto dalla figlia, del come scriva le sue Rosa, abbiamo parlato con l’autrice.
Come nasce l’idea del romanzo? Da dove ha tratto ispirazione? Le confesso che il nome della protagonista, Rosa appunto, mi ha fatto pensare vi potessero essere dei tratti autobiografici.
Il romanzo nasce tra i ricordi della mia infanzia. Quando ero bambina mi sembrava di vedere un Faccia d’Angelo in ogni angolo del mio quartiere. Quindi è stato facile prendere ispirazione dalla mia storia. Quando nasci e cresci in determinati contesti sociali la violenza in qualche modo ti si attacca alla pelle e te la trascini dietro. Io e Rosa siamo due persone diverse ma abbiamo respirato le stesse sensazioni. A mano a mano che andavo avanti nella stesura del romanzo mi rendevo conto di avere tante cose in comune con la Rosa della mia storia e che il suo modo di percepire le cose, il suo sentirsi incompiuta assomigliava sempre di più a me.
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«La bruttezza mi avrebbe salvato», dice la protagonista. Quanto può essere un peso la bellezza? O meglio: qual è il lato oscuro della bellezza?
Rosa conosce il lato oscuro della bellezza guardando suo padre che non a caso porta il soprannome di Faccia d’Angelo proprio per la sua bellezza inusuale in certi quartieri. Il portamento fiero, gli occhi di un celeste inespiabile sono tutti particolari grazie ai quali (a detta di qualcuno) Faccia d’Angelo avrebbe potuto fare l’attore, e invece non si sposta mai dal quartiere più povero della città, nonostante il suo inestinguibile desiderio di altrove. Cambia spesso casa e lavoro, dietro la corazza da uomo rude e violento si nasconde una creatura fragile. E fragile, ancora di più, è la mamma di Rosa, Agata, una donna fanciulla che non riesce a rinunciare all’amore “malato” di Faccia d’Angelo. Questa è la bellezza per Rosa, una perfezione solo apparente, dietro alla quale si nasconde quello che lei definisce «un mare mosso e nero».
Il rapporto tra la madre e il padre si rivela difficile. Afferma a un certo punto: «lui la addolorava e lei lo amava». È attendibile la percezione della protagonista? Che tipo di rapporto lega i genitori?
È assolutamente attendibile. Tra le pagine del romanzo la consapevolezza di Rosa cresce piano piano, passa attraverso la paura, l’idea della sottomissione, i silenzi, ma a un certo punto della storia diventa per lei palese chi è suo padre e quanto male sia capace di fare alle persone che gli stanno intorno. Il puntello intorno a cui ruotano le vite di tutta la famiglia. Quello che non comprende è il comportamento di Agata, il fatto che la madre gli resti accanto nonostante tutto. Di qui nasce per Rosa da una parte il desiderio di fuggire insieme a lei, in un altrove qualsiasi, purché lontano da lui, e dall’altra un grande bisogno di protezione nei confronti della madre. Rosa, una ragazzina smilza, brutta (così si definisce lei) eppure così adulta da caricarsi il peso di tutti i dolori altrui.
Una ragazzina umile e innocua, si descrive così Rosa, anzi Rosé. Chi è questa ragazza, quanto di lei c’è ancora nella donna preoccupata per la propria madre?
C’è molto della Rosa bambina nella donna costretta a correre al capezzale di sua madre e costretta pure a fare i conti con se stessa, con il suo passato e con il suo matrimonio fallito. Eppure è una donna che ha compiuto un viaggio, che pur se doloroso è catartico e la porta piano piano alla consapevolezza, all’accettazione del suo dolore, ad amarsi, finalmente. Da ragazzina si sente così sola da ricorrere all’amicizia di una prostituta, Marylin, per colmare quel vuoto, e all’amore clandestino, tutto suo, immaginario, per un uomo molto più grande di lei, il miglior amico di suo padre. I personaggi che abitano la sua adolescenza inquieta simboleggiano l’attrazione di Rosa per quel che è torbido, come suo padre in fondo. Il bene e il male convivono nella sua vita, attirandola prima per le cose malvagie e costringendola poi a rifuggire. È anche per questo che si lega a un uomo come Marco, quello che poi definirà «l’altro usurpatore», assai simile a Faccia d’Angelo.
«Lo sanno tutti che in casa decidono quelli che hanno i pantaloni», è quanto sostiene Salvo, il fratello minore di Rosa. Può commentare questo passaggio?
La vita di Rosa è il simbolo di una certa cultura che io ho vissuto sulla mia pelle e che in taluni contesti sociali in fondo è ancora vivida, l’idea che alle donne si addicano ruoli subalterni. Mi sono dedicata per anni alla condizione femminile, per scoprire che non c’è bisogno di andare poi così lontano per smascherare certi tabù e i continui casi di violenza contro le donne sono la testimonianza tragica di una cultura del “dominio” che ancora persiste e non molla. Rosa ha vissuto tutto quanto sulla sua pelle, contando i cocci di una vita spezzata dalla violenza assistita, ma la sua metamorfosi simboleggia per me la speranza del cambiamento, la capacità di dire basta. Sin dal prologo Rosa (che ora ha storpiato persino il suo nome, si fa chiamare Rose, a dire che ha chiuso con quello che è stata un tempo) ci dice di non essere come sua madre, di esserne uscita salva. È questa la grande forza della piccola Rosa.
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Dovessimo diventare – noi, i suoi lettori – delle mosche e dovessimo sorprenderla nell’atto della scrittura, come la troveremmo? Ha rituali particolari per scrivere? Segue un programma rigido o l’ispirazione?
Non ho rituali particolari per scrivere. Mi piacerebbe, ma purtroppo ho una vita così “incasinata” da non potermi concedere momenti tutti miei per dedicarmi alle mie storie. Diciamo che ogni ritaglio di tempo per me è un dono e corro ai miei quaderni (scrivo rigorosamente prima a penna!) per mettere giù i pensieri. Seguo molto l’ispirazione, la mia è una scrittura totalmente di pancia e poco di testa, ma nello stesso tempo sono anche una persona schematica e ho bisogno di impormi regole per sentirmi sicura, così quando l’ispirazione per una storia arriva, arriva tutta insieme, a quel punto, devo mettere giù un vero e proprio piano di scrittura. Quante pagine alla settimana? Quanti caratteri? I personaggi con le loro storie sono lì e mi chiedono di andare avanti. Per cui quando inizio una nuova storia è un’immersione totale, in ogni momento in cui i bambini o il cane non mi cercano, e a qualsiasi ora! Un silenzio leggermente rumoroso è sufficiente!
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Per la prima foto, copyright: Taneli Lahtinen su Unsplash.
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