Il grande gioco della lettura. “Racconti brevi e straordinari” di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares
Dopo una pubblicazione a ridosso dell’edizione ampliata del 1973, in Italia non si era più visto circolare l’ennesimo e tardivo frutto del ventennale gioco di collaborazione tra i due massimi scrittori argentini del Novecento, Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares.
In questo anno fuori dall’ordinario, per i tipi Adelphi e con la traduzione di Tommaso Scarano, i loro Racconti brevi e straordinari vengono riproposti alle nostre circonvoluzioni cerebrali, avide di lettura e di sogni.
Certo, manca la copertina color carta da zucchero recante la stampa di un ibrido che pare uscito dall’Iconologia del Ripa, ma per il resto il ritorno al grande divertimento combinatorio in cui dalla letteratura nasce altra letteratura si fa sentire con prepotenza e stile, alla perfezione, non appena apriamo questo breve e apparentemente innocuo libercolo.
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In apertura, la potenza della «Nota preliminare» è ambiziosa e al contempo priva di pretese: i due autori dichiarano l’intento di proporre tutto «l’essenziale di ciò che è narrazione»; parabole, aneddoti e racconti trovano qui il loro ricetto e si dispongono in un ordine tutto da scoprire con il fine di suscitare «piacere» e diletto, tanto in colui che scrive quanto, soprattutto, in chi intraprende il cammino della lettura.
A tenere legati i frammenti che i due autori affermano di aver recuperato dall’interrogazione di «testi di nazioni e di epoche diverse, senza trascurare le antiche e generose fonti orientali» concorre un criterio tematico: argomenti come il destino, la premonizione, il miracolo, la morte, il sonno, il sogno, il potere, la memoria, il gioco costituiscono l’impalcatura fondamentale ed evidente dell’opera.
Con i suoi centodieci racconti, la raccolta ha avuto una lunga vicenda editoriale: già a partire dal primo nucleo, però, mostrava le caratteristiche che l’avrebbero poi contraddistinta definitivamente. Una su tutte è la commistione tra lacerti di opere letterarie e saggistiche autentiche – tra gli autori compaiono Kafka, Stevenson, Hawthorne, Chesterton, Poe –, false attribuzioni forse inconsapevoli o forse consapevoli (per esempio, il brano attribuito a Voltaire è in realtà la nota di un meno noto curatore di una sua opera), interpolazioni e omissioni apocrife, traduzioni molto libere e testi scritti ex novo fatti risalire a opere fittizie di autori immaginari, tra cui tali Estanislao González, H. Desvignes Doolittle e l’assai biografico Francisco Acevedo (Francisco era il secondo nome di Borges e Acevedo è il cognome di sua madre).
Borges e Bioy Casares in questa raccolta di stralci fulminei concretizzano la componente ludica del loro scanzonato e al tempo stesso impegnato rapporto con la letteratura ma ci suggeriscono anche, tra le righe, quanto ogni storia sia già stata scritta: da ciò discende che noi lettori siamo prigionieri ingabbiati in una grande partita a scacchi in cui a spadroneggiare non è tanto l’imprevisto quanto la ricorsività dettata dall’esistenza di regole tanto evidenti quanto arcane.
Esemplari sono i frammenti 47 e 48, tutti e due caratterizzati dallo stesso titolo, L’ombra delle mosse. Il primo proviene da uno stralcio di un’opera fittizia scritta da Edwin Morgan, autore inesistente, e si rifà ad alcune tradizioni gallesi medievali che raccontano proprio di una partita a scacchi tra due re nemici, mentre in una vallata non lontana imperversa la battaglia tra i due loro eserciti: grazie alle notizie e ai dispacci dei messaggeri, i sovrani vengono a sapere che «le sorti del combattimento seguono le sorti del gioco». Dopo uno scacco matto, uno dei re ribalta la scacchiera e poco dopo, da un cavaliere, viene informato della sconfitta e della fuga del proprio contingente.
Anch’esso figlio del genio creativo dei due autori, il secondo stralcio narra di come, durante l’assedio francese di Antananarivo, alla fine dell’Ottocento, i sacerdoti della città avessero definito le sorti del conflitto scontrandosi ritualmente a fanorona (gioco nazionale del Madagascar, per certi versi simile agli scacchi), tanto che «la regina e il popolo seguivano con più apprensione la partita […] che non gli sforzi delle truppe».
Il brano 72, Il gesto della morte, riesce addirittura a superare i confini dell’opera per innestarsi in altri campi artistici: recuperandola dal Talmud, l’eclettico Jean Cocteau nel suo romanzo del 1923 Le grand écart (tradotto in italiano solo una decina d’anni fa col titolo La spaccata) cita la breve vicenda d’un giovane giardiniere che si rivolge al suo principe chiedendogli la possibilità di fuggire il più presto e il più lontano possibile dalle grinfie minacciose della Grande Mietitrice, nella quale si era imbattuto poco prima. Una volta accordato il favore, anche il principe si imbatte nella Morte e le domanda perché avesse rivolto al suo suddito un bieco gesto intimidatorio. Risponde la Nera Signora: «Non era un gesto di minaccia […] ma un gesto di sorpresa. Perché lo vedevo lontano da Ispahan stamattina e devo prenderlo a Ispahan stasera».
Poiché, secondo una categoria mentale propriamente borgesiana, dalla letteratura non può non scaturire, per necessità, altra letteratura, questo testo infettò altri autori, i quali a loro volta ne contagiarono altri: è il caso della celeberrima canzone di Roberto Vecchioni, Samarcanda, che riprende proprio questa parabola da un romanzo di John O’Hara, Appuntamento a Samarra, sviluppatosi intorno a un racconto di William Somerset Maugham nato dallo spunto estemporaneamente offerto da Cocteau (per i collegamenti precisi ringrazio i redattori di carmillaonline.com).
Se la vicenda non fosse così presente nel nostro bagaglio culturale tanto da essersi radicata stabilmente, complice anche la melodia galoppante di Vecchioni, di sicuro ci accorgeremmo della sua arguzia.
Questa forma di acutezza ricorda quasi le clausole fulminee delle poesie barocche, le battute a bruciapelo degli umoristi e le caustiche riflessioni di certi aforisti tanto da configurarsi come la definitiva e più spiccata cifra stilistica della raccolta.
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Compaiono ad esempio perle di poche righe come questa, con la quale mi piace chiudere la recensione, dopo l’invito alla lettura e alla riscoperta dei mondi brevi e straordinari, così onirici e così reali, di Borges e Bioy Casares: «Chuang Tzu sognò di essere una farfalla e al risveglio non sapeva se era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla o una farfalla che ora sognava di essere un uomo».
Per la prima foto, copyright: Caleb Angel su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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