“Il giardino dei Finzi-Contini” di Giorgio Bassani: per capire bisogna morire almeno una volta
È il 1962 l’anno in cui il pubblico conosce per la prima volta il capolavoro di Giorgio Bassani, ovvero Il giardino dei Finzi-Contini. In questo romanzo, vincitore del Premio Viareggio, a essere raccontati sono gli anni che precedono la seconda guerra mondiale, gli stessi in cui le leggi razziali si diffondono con le loro stupide limitazioni. Ma il protagonista, nonché l’io narrante senza nome di quest’opera intensa, riferisce gli eventi storici alla luce dei ricordi, lasciando che la propria esperienza personale conduca la trama.
Roma 1957. Le tombe della necropoli etrusca presso cui il nostro io narrante si trova in visita con degli amici, lo portano a pensare a un’altra tomba, quella che doveva accogliere i componenti della ricca famiglia Finzi-Contini, ebrei come lui. Invece tra quelli che aveva frequentato durante la sua giovinezza ferrarese solo Alberto, morto precocemente a causa di una malattia, vi troverà sepoltura mentre gli altri saranno deportati nei campi di concentramento in Germania. Il finale è così da subito svelato, proiettando il lettore in una prospettiva che non offre l’illusione di una risoluzione positiva della vicenda. Ma dopo il primo salto nel passato, il narratore non riesce a riemergere dal vortice della memoria, che lo riporta a quel giardino in cui lui e altri ragazzi si incontravano per giocare a tennis, dopo che tra le leggi razziali era entrata in vigore anche quella che prevedeva, appunto, l’esclusione degli ebrei dal circolo in cui si praticava questo sport. Il primo invito a partecipare alle partite presso il giardino dei Finzi-Contini lo riceve dalla sorella di Alberto, la bella e testarda Micol, che non vede da quando, nove anni prima ancora quindicenne se ne era infatuato. Riprende a frequentarla e scopre che quel sentimento infantile, si rinnova con la pretesa di diventare qualcosa di più importante. Concedendosi a solitarie esplorazioni del giardino, lontani dal rumore del gruppo intento a concludere le partite, tra i due si crea una dinamica interessante che li porta a un confronto, in cui emergeranno due modi contrapposti di approcciarsi alla vita, dovuti anche alla distanza che tiene separati gli ambienti dell’alta e media borghesia, cui appartengono rispettivamente Micol e l’io narrante;inutili le parole della ragazza volte a giustificare l’impossibilità di legarsi sentimentalmente al protagonista, perché quest’ultimo intuisce con grande dispiacere la presenza di un’altra figura maschile.
Il giardino dei Finzi-Contini è il luogo presso cui trovano manifestazione le personalità dei personaggi che lo popolano. Qui il processo storico, infatti, sembra essere sospeso in favore di una maggiore visibilità di quelle che sono le caratteristiche più peculiari di questi ragazzi, il cui destino è pesantemente influenzato dal contesto in cui vivono. Le leggi razziali, così come la guerra che avanza senza tenere conto dei sogni e delle speranze individuali, si riducono a un’eco che sfiora il giardino senza mai attraversarlo. Ovviamente anche in questa micro società nascono i conflitti, rendendo le relazioni interpersonali tutt’altro che statiche.
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I temperamenti emergono nella loro diversità, a cominciare da Micol la cui vitalità è opposta alla fragilità del fratello Alberto, trovando un punto di contatto nell’esuberanza di Giampiero, altro frequentatore del giardino, destinato a morire in guerra. Ma anche tra questi due idealisti sussiste una differenza significativa, perché se Giampiero vive le proprie idee politiche con l’aspettativa di cambiare il corso delle cose, Micol sembra non confidare in un futuro, che in effetti non l’attende. C’è un presentimento che la spinge a concedersi al giorno, senza riservare alcuna fiducia nell’avvenire.
L’io narrante, al contrario, dotato di un’indole particolarmente sensibile e capace di penetrare la superficie della realtà, soffre della frustrazione di chi intende realizzarsi. Ma qui non è solo la storia a essere stata clemente con lui, perché a entrare in gioco sono anche quelle risorse che scopre di possedere, grazie all’aiuto del padre. Forse è questa una delle parti più interessanti del libro, quella in cui il genitore vede nella diversità del figlio il punto da cui partire per costruire un progetto di vita autentico. Lo sprona a vivere il rifiuto di Micol come la possibilità di un ritorno a se stesso, perché ogni fallimento non è altro che un punto di contatto più profondo e consapevole con la realtà: «Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare».
Questo romanzo è da comprendere, da fare proprio, perché quei momenti in cui è necessario arrivare a un punto di rottura con l’esistenza per recuperarla, sono parte di quel processo doloroso, che le parole così forti e rappresentative di Giorgio Bassani hanno saputo rendere in modo straordinariamente vivo ne Il giardino dei Finzi-Contini.
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