Il fronte dimenticato della Grande guerra in “Gulaschkanone” di Paolo Rumiz
Edito da Feltrinelli nella collana ZOOM Wide, Gulaschkanone del giornalista e scrittore Paolo Rumiz nasce anzitutto dalla volontà di ritornare sulla vicenda di Come cavalli che dormano in piedi, romanzo sulla Grande Guerra uscito ad un secolo dal suo tragico inizio.
La Grande Guerra dunque. Sì, verrebbe da dire, ma quale?
Qui sta appunto l'originalità di Gulaschkanone che, come il suo antecedente romanzo, si rifiuta di concentrarsi sul fronte “popolare” di quella guerra, quello di Verdun e della Somme, per trattare invece di quel fronte dimenticato che era la Galizia, attualmente tra Polonia e Ungheria, e di cosa fosse avvenuto lì:
«[...] il primo fronte per noi non fu l'Isonzo, ma la Serbia e poi l'impero russo senza fine. Lo chiamavano die vergessene Front, il fronte dimenticato, perché schiacciato dall'epopea di quello occidentale che ha visto la testimonianza di tanti più scrittori».
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Rumiz si assume quindi il compito di parlare di quel passato trascurato dai narratori e persino dai libri di storia: il fronte verso cui marciarono i trentini quando erano ancora parte dell'impero austro-ungarico, non-italiani.
Per narrare di questo scontro che viene emblematizzato dal gulaschkanone del titolo, la cucina da campo sputa-carne,l'autore si serve della mediazione del fantasma del nonno Ferruccio e delle testimonianze di altri soldati, le Ombre che si vogliono rievocare.
Così, se la vicenda risulta la stessa di Come cavalli che dormano in piedi, diversa invece è la modalità con cui viene presentata. In questo caso infatti non ci si trova davanti a un romanzo, ma a un testo che può e deve essere messo in scena perché non solo i tre personaggi-narratori si rivolgono esplicitamente a un pubblico, ma si parla di luci, di accordi musicali e ancora di tavoli, zaini e mirtilli che dovrebbero essere parte della scenografia.
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Si tratta dunque a tutti gli effetti di un testo teatrale ricco di note; testo che è stato peraltro già rappresentato nel 2016 dal Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia.
La ragione di questa scelta, ossia quella di traslare la vicenda in una forma diversa, ci pare che possa essere giustificata dal fine sociale che si propone.
Infatti, dopo aver rievocato l'ultima Ombra, l'autore interviene dichiarando:
«Noi l'abbiamo chiamato, e lui è venuto. Si è seduto a tavola con noi. Vedete, non c'è libro al mondo, non c'è parola scritta che possa resuscitare un morto, ma l'oralità ne è capace. La voce».
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Pare dunque che solo la narrazione orale, quella che viene trasmessa dai nonni ai nipoti o a un pubblico, possa avere l'immediatezza e l'impatto emotivo che Rumiz ritiene necessari affinché quel passato torni a essere vivo.
Attraverso questa “seduta spiritica”, questa rilettura presso un pubblico delle testimonianze dei suoi stessi avi, si ricrea allora l'intimità, la spontaneità del racconto a tu per tu.
Grazie all'operazione di Rumiz i ricordi non moriranno mai, malgrado la scomparsa dei loro portavoce mortali.
Rimarrà sempre il racconto di questi soldati che, sublimati dalla rappresentazione, diventano avi collettivi perché quelle testimonianze che erano private si sono aperte al pubblico.
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E quale forma migliore per quest'apertura se non il teatro che è stato, fin dai tempi classici, lo spazio sociale per eccellenza, nonché occasione di auto-riflessione della comunità?!
Il perché di quest'opera si può desumere dalla parte conclusiva in cui Rumiz chiarisce il suo interesse verso quel conflitto mondiale rifacendosi ancora al concetto di pubblico/privato.
Da un lato infatti l'indagine risponde alla volontà di ritrovare un passato familiare perduto con la morte al fronte del nonno:
«E adesso, caro nonno Ferruccio, ora che il nostro viaggio alla ricerca delle Ombre è finito. È arrivato il tempo che ti scriva. Noi non ci siamo mai conosciuti. Tu sei morto prima che io nascessi. Della tua guerra ho solo una cartolina dal fronte. […] Ma ora è diverso. Ho ritrovato qualcosa di te dai racconti dei tuoi commilitoni. Ho finalmente visto i tuoi posti».
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Dall'altro, c'è però anche il fatto che è il presente stesso e la condizione di guerra in cui l'Europa attualmente si trova a richiamare quel passato e rendere il ricordo necessario:
«Perché torna, oggi in Europa, la fame di dissoluzione? Non lo senti, come un secolo fa, il sonnambulismo delle élite? […] Dimmi: perché abbiamo perso il gusto della pace? Non sarà perché abbiamo perso la memoria dei disastri che ci hanno diviso?».
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Obiettivo dell'autore, qui manifesto, è allora quello di riesumare quel passato, dimostrando come quel conflitto, quelle sofferenze condivise sui campi di battaglia avessero creato anche qualcosa di positivo, una consapevolezza: un'uguaglianza riscoperta nella bassezza.
«Nelle lunghe notti di trincea, loro ascoltavano le vostre canzoni e sentivano l'odore del vostro rancio. Stessi pidocchi, stesso tifo, stesse pantigane, stesso destino. Eravate uguali».
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Questa fratellanza nel dolore e nel malessere, da concetto astratto, è poi però stata tradotta da quegli uomini in un'unione concreta, l'Europa. Un'unione che ora Rumiz, nel tempo della scrittura, vede in pericolo a causa del disinteresse e dell'interesse, del fatto che la memoria di quel passato di condivisione sembra essere stato dimenticato.
Fine pubblico di Gulaschkanone dunque è problematizzare il nostro presente di europei e di Europa, senza negare a quell'unione il valore che detiene e che affonda le sue radici nel sangue versato insieme:
«[…] spiccioli di euro, li guardavo luccicare nella mano aperta, e mi commuovevo. Leggevo i nomi delle nazioni d'origine, Grecia, Germania, Spagna, Slovenia, Italia, Boemia, Francia. Paesi che si erano massacrati fra loro ora erano inquilini della stessa Unione. I confini erano spariti. […] Oggi ogni tanto diciamo “Ti ricordi della Jugoslavia?”. Ecco, non vorrei che ci capitasse, tra qualche anno, di dire: “Ti ricordi dell'Europa? Eh, l'Europa... non era poi così male... e noi l'abbiamo fatta a pezzi...”».
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