Il folle amore degli animali. “Il mio cane del Klondike” di Romana Petri
Romana Petri è una delle scrittrici di letteratura contemporanea più apprezzate del momento, con il suo Le serenate del Ciclone (Neri Pozza, 2016) ha vinto il premio Super Mondello 2016 e il Mondello Giovani. Il mio cane del Klondike (Neri Pozza, 2017) è il suo ultimo lavoro, un’opera sull’amore, l’amore che salva, l’amore che dà vita, l’amore che la vita la spezza.
Il romanzo narra l’incontro di due esseri feriti, una ragazza non più giovanissima e un cane abbandonato. La protagonista lo salverà dalla strada in fin di vita, si scontrerà con la sua esuberanza distruttiva di chi non ha mezze misure, di chi ce l’ha con l’esistenza perché lo strappo ha lacerato talmente a fondo che non è ipotizzabile si rimargini. Un incontro al sapore di zecche, spasmi, casa ribaltata per paura di essere abbandonato di nuovo; un essere terrificante per l’assoluta mancanza di filtri nella manifestazione di una fame d’amore disattesa in passato, nella protervia difesa di un’illusione: che ciò non avvenga di nuovo.
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Osac, leggasi come anagramma di caos, come un tornado entra nella vita della protagonista e da moribondo ne assurge a violento manipolatore fin tanto che ciò sia funzionale a evitare la separazione dalla sua salvatrice. Capace di una bipolarità disarmante, ricorda gli uomini feriti che troppo spesso imperversano nella cronaca per la troppa gelosia o la smodata possessività. Ma Osac non supererà mai il limite, gli animali sanno amare davvero, senza mezze misure; la sua presenza rende di certo la vita più complessa, taglia di netto le poche relazioni sociali (ce n’erano davvero?) precedenti alla sua comparsa, ma la invade con un fiume di sentimento incondizionato dal quale il lettore non potrà non lasciarsi travolgere.
La Petri disegna quest’essere enorme, possente, con occhi di brace, in una maniera tale da figurarlo pagina dopo pagina con precisione, nello scivolare sulle parole non si può non essere percorsi dalla tenerezza dei suoi rantoli, degli sbadigli, dei rictus incontrollati mentre dorme, del suo tartufo nero mentre usma l’aria. Anche l’arroganza, la violenza sferrata contro chi nella sua mente di bambino potrebbe portargliela via, nell’ottica di un bisogno atavico assurgono a dolcezza giustificabile. Esilaranti gli scambi tra i due e il dar voce a buffi pensieri canini da parte dell’autrice.
Dopo la morte della vedova, femmina di boxer sopravissuta al marito preesistente al suo arrivo, la situazione è perfetta, il bucolico idillio è stabilito, non dovrà dividere la sua padrona con nessuno e starà a guardia di potenziali invasori con la furia e la prepotenza delle quali il Klondike e l’ingiustizia subita lo hanno rifornito. Il suo temperamento d’assalto nasconde la paura antica con cui combatterà tutta la vita: fidarsi di nuovo. Un rapporto simbiotico, assoluto, una comunicazione verbale (davvero così!), ma anche fatta di intuizione, sguardi, passaggio di emozioni dall’uno all’altra. Proprio come durante la vacanza insieme in Bretagna, dove Osac, mostrerà di conoscere il futuro in anticipo poggiando la zampa sul ventre della padrona. Tsouro, così la chiama nel linguaggio canino/umano che l’autrice descrive con minuzia e al quale dedica per intero la chiosa dell’opera, deciderà che trasferirsi in campagna, a casa della madre, nel posto in cui suo padre morì e che nei suoi ricordi non è altro che la casa della morte, sia l’unica soluzione percorribile per gestire cane e gravidanza al contempo.
Ma Osac non è pronto a dividerla con nessuno, l’unico scopo della vita è mantenere quell’equilibrio squilibrato fatto di ululati, guaiti, corse, giochi, rimproveri mai troppo convinti, di zampe sulle spalle quando diritto in piedi si specchiano l’uno nell’altra. L’arrivo di un nemico, ecco al suo cuore emotivamente infantile nel donarsi al mille per mille cosa sembra il bambino che già da dentro la pancia condiziona e limita l’esistenza: niente più feste, nessun abbraccio energico, o dormite insieme stravaccato sul letto, se proprio lo desidera può starsene in un angolo, a distanza di sicurezza. Nella casa della morte si ridefiniscono i confini dell’amore precedentemente sconfinato; nato il pargolo, la gelosia imperversa e il timore porta a una scelta drastica. Decisione per l’umano razionale concepibile, ma per la canina purezza devastante. La protagonista del romanzo (la Petri stessa forse?) tornerà in città con il figlio, lasciando Osac in campagna con la madre e il fratello pittore. Il senso di colpa aleggia per tutta la seconda parte del romanzo, in frasi come «Esisterà mai una storia, tra cane e padrone, in cui il padrone abbia amato più del cane?», o quando nelle pagine finali si è quasi di fronte a una tenera richiesta di assoluzione da parte dell’autrice. L’abbandonato, il reietto, il disastro ambulante, l’enorme cane dagli occhi di brace, non si darà pace alla ricerca del suo unico amore, la salvezza che lo aveva illuso una seconda volta. Tirando fuori l’animo del Klondike la cercherà ovunque. Nella foga scapperà, diventerà il capo branco di randagi, schiverà le pallottole di un pastore, sempre e solo per zittire la mancanza, per rincorrere l’unica vita possibile, quella che raccogliendolo moribondo, pieno di zecche, denutrito gli era stata regalata inaspettatamente. Ma un figlio stravolge tutto, un figlio diventa l’universo a cui si può solo vorticare intorno e a debita distanza, essere madre gonfia il cuore e lo riempie al punto che lo spazio per ogni altra cosa diminuisce drasticamente.
La Petri ci confida che madri non si è mai, lo si diventa giorno dopo giorno, non riuscendo a esserlo completamente forse neppure quando gli occhi si chiudono per l’ultimo saluto. Intense le parole «Esser madre comporta anche questo: l’infedeltà verso l’universo mondo che ha preceduto il figlio». Proprio nel suo amore oltre tutto e tutti per il suo cittino possiamo leggere specularmene l’amore che per lei prova Osac, sentimento che lo spinge in vecchiaia ad accettare quel ragazzino che lo considera il suo unico cane, il compagno di giochi delle vacanze a casa della nonna, come volesse dire alla traditrice “lo vedi che non c’era bisogno di fare tutte quelle storie? Mica gli avrei fatto male davvero!”.
Un essere nato libero, ma che morirà a catena perché non smetterà neppure per un attimo di cercare l’amore che lo ha salvato e poi abbandonato.
Un libro sull’amore tradito, un amore che il tradimento non ha annullato, che resiste nell’attesa del ritorno fino all’ultimo sospiro cosparso di bava.
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La Petri con uno stile fluido, ricercato nella delicatezza dei sentimenti e delle emozioni comunicate, costruisce un lessico che diviene attimo dopo attimo proprio anche del lettore, che non potrà fare a meno di ritrovarsi a ripetere ad alta voce le frasi pronunciate da Osac. Con quest’opera l’autrice regala una grande possibilità: vivere le gioie e le difficoltà di chi sceglie coraggiosamente di non avere filtri.
Per la prima foto, copyright: Alexander Dimitrov.
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