“Il fiume della coscienza” e la potenza della fantasia, l’ultima opera di Oliver Sacks
La storia delle idee è costellata di temi e questioni di fondo irrisolte. Che cos’è la coscienza? E la mente? Che significato possiede l’evoluzione? Qual è l’origine della vita stessa? Sono alcune delle domande a cui prova a rispondere Oliver Sacks ne Il fiume della coscienza (Adelphi 2018, traduzione di Isabella C. Blum), opera testamento del neurologo britannico, curata dagli allievi Kate Edgar, Daniel Frank e Bill Hayes.
Acuto osservatore della realtà come Charles Darwin, il primo saggio è dedicato proprio allo scienziato inglese e ai suoi scritti botanici, con particolare riguardo allo studio delle piante e al «significato dei fiori». La selezione naturale non è un fenomeno circoscritto agli esseri umani o agli animali, ma riguarda anche le piante, e proprio dalla loro analisi, Darwin, trovò le prove più robuste per la dimostrazione della sua tesi: «siamo tutti imparentati gli uni con gli altri».
Affermazione che va estesa non più soltanto alle scimmie antropomorfe, ma anche alle piante: «oggi sappiamo che piante e animali condividono il settanta per cento del loro DNA».
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William James è il secondo grande riferimento che incontriamo nel volume, in particolare nel saggio Velocità dedicato alla percezione del tempo, dove vengono anticipati alcuni dei grandi temi che fanno da collante all’intera opera, come il flusso cosciente della percezione e la sua analogia con il cinema. La continuità delle nostre percezioni è data da una serie di «istanti discreti, come i fotogrammi di una pellicola, che vengono poi fusi, dando così una parvenza di continuità».
Sigmund Freud, terzo autore di riferimento dell’autore, è raccontato nelle sue vesti di neurologo, infatti non tutti sanno che il noto psicanalista incominciò la sua attività di ricerca studiando il sistema nervoso di un pesce primitivo chiamato Petromyzon, studi che saranno propedeutici a scoperte più importanti relativi ai sistemi nervosi più complessi.
Come in un altro classico dell’autore, penso a L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (Adelphi, 1986), i cui rimandi nell’ultima opera sono molteplici, Sacks chiama in causa un numero di esempi relativi ai casi dei suoi pazienti molto utili per comprendere la fallibilità della memoria, come nel caso del «marinaio perduto», funzionali alla costruzione di una visione che riequilibri la fragilità della memoria umana con la sua flessibilità e la sua creatività.
I rimandi letterari nel saggio dedicato al tema riguardano alcuni scrittori importanti come Samuel Taylor Coleridge, accusato di essere un «cleptomane letterario»; Mark Twain, il quale riprodusse, in maniera identica, una dedica apparsa precedentemente in un’opera di Oliver Wendell Holmes; Helen Keller, autrice di The Frost King, libro riscritto quasi tale e quale a The Frost Fairies di Margaret Canby. Tutti gli autori qui chiamati in causa sono esempi illustri di una patologia chiamata «criptomnesia», una forma inconsapevole di plagio.
La potenza della fantasia è situata proprio in questa possibilità, come ci insegna la letteratura, di entrare nelle menti altrui, «per attingere alla cultura nella sua totalità».
Come scrive Mario Vargas Llosa in Elogio della lettura e della finzione (Einaudi, 2011), riproduzione del discorso tenuto per il Nobel ricevuto nel 2010, leggere e scrivere sono fondamentali nella nostra ricerca per una condizione migliore: «Inventiamo storie per poter vivere in qualche modo le molte vite che vorremmo avere quando invece ne abbiamo a disposizione una sola».
Concetto che viene ripetuto spesso nel corso della lettura, come nella citazione riportata in uno dei saggi più belli del libro, Il Sé creativo, del critico Arnold Weinstein, per il quale la funzione dell’arte consiste proprio in una «immersione indiretta nella vita degli altri», sulla forza inesauribile della lettura come «estensione dell’immaginazione» come nel caso di Susan Sontag, e più in generale sulla inevitabilità, anche per i migliori (anzi, soprattutto), di far incominciare tutta l’arte sempre derivandola da qualcos’altro di già esistente.
Nel saggio Il fiume della coscienza, il confronto si apre ad autori come Jorge Luis Borges, David Hume e Henri Bergson. Il flusso di pensieri che costituisce il corso della coscienza stessa è paragonato al medesimo delle immagini connesse da un tema di fondo nel cinema (come abbiamo già accennato in precedenza), le quali opportunamente integrate dalla prospettiva particolare del regista e dalla sua griglia di valori, costituisce la metafora perfetta per rappresentare la coscienza. Bergson parla del pensiero in termini di «meccanismo cinematografico», intendendo per cinematografia la disposizione della mente a connettere in fotogrammi connessi tra loro il flusso percettivo ininterrotto che la caratterizza. La realtà è, per analogia, come il cinema. La frammentiamo, come il tempo (impossibile non pensare alla celebre opera del filosofo francese Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, pubblicata per Einaudi, dove sono espliciti i riferimenti a Bergson per avere coniato l’espressione «illusione cinematografica», e averla legata alla concezione moderna di movimento), allo stesso modo di una cinepresa, in fotogrammi discreti che poi riassembliamo in un flusso continuo.
La coscienza è perennemente in attività e seleziona i suoi materiali, ma è sempre contrassegnata da una individualità e identità specifica (può essere utile rileggere su questo tema Il codice dell’anima di James Hilman, Adelphi 1997), oltre al «fascio di percezioni» di cui sarebbe costituito il nostro Io di humeana memoria, con Proust possiamo affermare che siamo costituiti da una «raccolta di momenti».
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Nel nostro cervello vi sono 100 miliardi di neuroni e ciascuno dei quali con almeno un migliaio di connessioni sinaptiche, la selezione di queste «coalizioni neuronali» avviene in frazioni di secondo: «il fiume della coscienza» può essere letto come una dichiarazione testamentaria sulle infinite possibilità della mente e della immaginazione creatrice.
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