Il filo e il peso dei ricordi. “Feste in lacrime” di Prabda Yoon
Puntata n. 37 della rubrica La bellezza nascosta
«Che cosa non volessi diventare non lo ricordo più. Non so se ho mantenuto la parola. Cerco di mettermi nei panni di me stesso dodicenne o tredicenne; doveva essere una questione di vita o di morte, o perlomeno così seria che consideravo tassativo non deviare dalla mia strada. Qualunque cosa mi fossi inventato, dovevo crederci tantissimo.»
Ci resta sempre un fianco scoperto, restiamo sempre fragili davanti al nostro passato. Siamo assidui frequentatori di quello che è stato e soprattutto di quello che siamo stati. E spesso, a farci restare intrappolati nel “prima” sono degli oggetti, una scatola di latta, un salvadanaio, un vecchio quaderno dove con la nostra calligrafia bambina giocavamo a fare gli scrittori, raccontando storie semplici, riscrivendo episodi di cartoni animati che avevamo amato.
A volte, per quanto possiamo provare a spostare la nostra attenzione sul presente, basta un attimo di distrazione per inciampare, ed eccoci di nuovo lì, in quella scena che ci ha fatto piangere, in un addio che ci ha lasciati senza respiro; o su quella spiaggia, mentre correvamo dietro a un pallone con nostro padre che sorrideva e nostra madre che ci guardava da lontano, una mano davanti agli occhi per farsi scudo di un sole al tramonto.
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Prabda Yoon è nato in Thailandia nel 1973, questa raccolta di racconti, Feste in lacrime, è stata pubblicata in Italia da Add editore, con la traduzione a cura di Luca Fusari.
Sono, questi racconti, voci che ci parlano di persone comuni, persone a volte ai margini, o tanto “straniere” da non avere nemmeno un nome durante la narrazione. Alcuni racconti sono poetici, altri pop, altri ancora surreali. Abbiamo degli amici che vorrebbero dare delle feste in lacrime; un grafico che in maniera proustiana, guardando un vecchio foglio appartenutogli da piccolo, si lascia andare ai ricordi; e poi due amanti che assistono a qualcosa di surreale e tanti altri racconti che esplorano la condizione umana, a tratti con leggerezza, altre volte in maniera profonda.
Yoon ha un modo sperimentale di portare avanti la narrazione, alternando di frequente il suo modo di scrivere e cambiando, quasi in ogni racconto, lo stile. Il suo gioco funziona e dona al lettore la sensazione di essere sempre lì a leggere qualcosa di completamente diverso; i racconti si legano tra loro per tematiche ma differiscono per struttura e maniera di raccontare.
«La mia casa ha quattro abitanti umani ed un cane. Il mio cane si chiama Macchia perché è pieno di macchie, sembra che gliele abbiano disegnate. Mamma dice che è nato così. Ma secondo me papà ci ha rovesciato sopra l’inchiostro nero quand’era piccolo, perché una volta papà ha rovesciato l’inchiostro nero sul tappeto del salotto e ha lasciato un segno uguale a quelli che ha Macchia, che non viene più via. Ho chiesto a papà se ha rovesciato l’inchiostro su Macchia. Lui ha detto e ridetto di no. Si rifiuta di confessare.»
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Pabda Yoon ci fa esplorare le vite di personaggi qualsiasi e, anche se ogni racconto è completamente slacciato dal successivo, c’è una cordicella che tiene ben saldi i racconti di questo libro: il filo del ricordo, del passato che incombe e consuma, la tenacia della nostalgia, e un certo tipo di surrealismo che ci riporta alle arcaiche credenze della società thailandese.
Ci troviamo davanti a mondi e culture molto lontane dalle nostre, ed è quindi anche un viaggio di scoperta, questa lettura, che induce il lettore a porsi delle domande e a incuriosirsi; il tutto condito da un’ottima scrittura e da una sapiente tecnica narrativa.
«Voglio stare al di spora del mondo, in alto, dove la banalità della vita non arriva, oltre il caos ciclico che segue la traiettoria del traffico, più in alto dei grattacieli, più in alto della democrazia, più in alto del tasso calorico di una barretta di cioccolato, più in alto de QI di Einstein, più in alto del costo della vita nei paesi sviluppati. In un posto che non è sviluppato e non ci tiene ad esserlo. Un posto dove avrò freddo, ma sarò io a sapere che ho freddo, senza dovermi affidare all’opinione di nessuno. Non dovrà dirmelo il portavoce del governo. Non dovrò ascoltare le previsioni del tempo ufficiali.»
Di cosa è fatta la nostalgia? Se potessimo darle una forma, quale potremmo scegliere? Qual è il colore dei ricordi e che odore può avere un’immagine che ci fa commuovere tutte le volte che ci cade nella testa?
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L’uomo, per quanta strada possa fare, resterà sempre prigioniero di ciò che ha fatto e vissuto, non esistono fughe, né piani per scappare; il ricordo è un po’ magico e ha la presunzione di arrivare quando e dove vuole, senza mai chiedere il permesso, costringendoci a rivivere, da fermi, ciò che già abbiamo pagato.
Per la prima foto, copyright: Huyen Nguyen.
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