Il fascismo raccontato da Corrado Alvaro
Corrado Alvaro fu tra i firmatari, nel 1925, del Manifesto antifascista apparso su «Il Mondo» e voluto da Benedetto Croce. Questo segnò, negli anni che seguirono, il suo rapporto col regime sempre improntato a un aperto dissenso che col tempo fu causa della sua condanna al confino.
In Quasi una vita, il diario che nel 1951 gli valse il Premio Strega, Alvaro ritorna più volte sul fascismo raccontando in parte alcune sue esperienze e in parte proponendo interessanti riflessioni.
Il primo inserto in cui parla esplicitamente del fascismo risale al 1927, e Alvaro riporta proprio il momento in cui Mussolini e il regime iniziano a interessarsi agli oppositori col preciso intento di ridurli al silenzio.
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Il Paese si è assestato col fascismo e va verso la sua nuova vita. Mussolini ha detto: «Ora deve cominciare la mia leggenda». Simplicio lo vede qualche volta la mattina a Villa Borghese, presto, e discorre con lui di molta gente, giacché egli è curioso di tutti. Tra morti ed esiliati, l’opposizione si è dispersa. A chi rimane, si chiedono dichiarazioni dei suoi atteggiamenti passati. In genere, si buttano sui morti e sugli assenti le responsabilità delle proprie azioni. Chi non si fa avanti, resta come un bersaglio di cartone, giacché questi hanno bisogno di nemici. Essi stessi creano un nemico in qualcuno sperduto e poco significante. Io sono uno di questi. Bisogna adattarsi a questo ruolo. Poca gente vi riconosce, neppure quella che affollava le anticamere quell’opposizione quando pareva che l’opposizione potesse prevalere. Così ci si trova a passare tra sguardi di odio che fanno tremare. A casa c’è una donna e un ragazzo; l’avvenire è oscuro. Il solo atteggiamento possibile è di assumere la parte che vi dànno, anche se è troppo importante per voi. Il nemico si vede sempre più grande di quello che è. E già questo è qualche cosa; è esistere. Non c’è di meglio da fare. Bisogna non uscire nei giorni delle loro feste, evitare i luoghi affollati. Chiunque è arbitro della vostra vita, e bisogna dire che hanno ancora degli scrupoli. Potrebbe sopprimervi senza che i giornali dicano una parola. Ma non si sa mai quello che può servirvi di salvataggio. Di me, per esempio, si ripete una frase che ebbi a dire a Milano lasciando il Corriere della Sera, a uno che mi invitava a conoscere Mussolini nel 1919. «Non ci vado dissi, perché non mi piace quello che fa e perché secondo me è un uomo senza avvenire». Nel suo trionfo, questa frase, ridetta dai suoi amici e riferita a lui, fa ridere e mi fa compatire. È gente di cui non si possono misurare le reazioni, e forse su questo si può giuocare per salvarsi. Hanno ancora suggestioni e atteggiamenti culturali, la generosità ostentata dei vincitori, il dubbio che la vittoria possa non essere definitiva. Il paese ha avuto abbastanza dell’opposizione e non le perdona di aver perduto. In Italia, guai ai vinti. Ora che il paese assume delle responsabilità, paventa l’idea di doverne rispondere, di tornare indietro, e più si comprometterà più rafforzerà il regime.
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Sempre al 1927 risale l’inserto che vi riportiamo qui di seguito e nel quale Alvaro racconta da vicino la sua situazione durante il fascismo, e proprio negli anni di consolidamento del regime:
Fa una certa impressione avere giuocata la propria vita, diggià, nella giovinezza. Bisogna scansarsi, farsi piccolo, non trovarsi sulla strada di nessuno. Penso di rifugiarmi al mio paese dove non si è costituita nessuna sezione del partito, perché la camicia nera da noi si porta soltanto per un lutto grave. Mio padre non vede volentieri questo ritorno: sono partito per lottare con la vita e non posso tornare vinto, dando ragione all’invidia dei nemici. Andare in provincia, è inutile pensarlo. A Roma, nella Capitale, con le ambasciate, presso il potere, e sapendo che il padrone ha una stima curiosa di me, è possibile tirare avanti senza troppi inconvenienti, a patto di andare cauti. In provincia, sarei sottoposto ai capricci del primo che abbia un potere. Poiché mi chiedono una dichiarazione sul mio passato, per iscritto, dichiaro di aver partecipato alla lotta dell’opposizione come chi, stando in una casa assediata, la difende, e che questo diritto mi era concesso dalla costituzione. Volendosi assestare dopo la guerra civile, mi pare che possano accettare delle dichiarazioni che non umiliano troppo. Capaci di sopprimervi a un angolo di strada, possono essere sensibili a un atteggiamento legalitario.
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Nel 1928, invece, Alvaro racconta un episodio che ben mette in evidenza come i soprusi fascisti fossero all’ordine del giorno in varie aree della societàe di come la donna fosse considerata mera merce di scambio, nonostante la propaganda a favore della famiglia:
È pericolo avere in casa una bella donna. Sapendo che avrete sempre torno, che siete un nemico, possono insidiarla palesemente minacciando e intimidendo. Un vecchio ferma per istrada un mio amico e gli dice chiaro di volere sua moglie. Gli si confida, quasi lo vuole partecipe della sua passione. È sicuro che il mio amico non può reagire, non può denunziare l’insidia perché politicamente sospetto. Il vecchio insegue la donna per la strada, la minaccia con una rivoltella, la sbigottisce con l’idea che ella è moglie di uno politicamente nemico e quindi facilmente perseguibile. Se egli sparasse contro di lei o contro se stesso, come egli minaccia se ella non si arrende, sarebbe esposta alle offese che i giornali butterebbero su di lei e la sua famiglia, perché moglie di uno classificato nemico della patria. Così questa storia si trascina per mesi, il vecchio diventa sempre più insolente, bussa alla porta a tutte le ore del giorno, profitta della paura diffusa per impaurire la povera famiglia. È un funzionario che ha contratto questa malattia della prepotenza come una malattia di vecchiaia. Un giorno non resta che denunziarlo, giacché il regime proclama la moralità e la difesa della famiglia. È stata una questione di abilità, chiedere protezione alla giustizia. Il vecchio è stato condannato. Ma bisogna evitare il più possibile i rapporti. Il vecchio non godeva di nessuna protezione particolare, perciò la cora è andata liscia.
È del 1933 una riflessione sul rapporto tra nazionalismo ed europeismo nel fascismo, attraverso la quale Alvaro propone un punto di vista interessante, che si potrebbe recuperare anche oggi:
Non penso affatto che il fascismo sia un movimento nazionalista e patriottico. Secondo me, è un tentativo di europeizzare l’Italia. C’è il culto del mito nazionale, e non per approfondire una tradizione, giacché di fatto tutte le epoche italiane sono messe in discussione a partire dal Risorgimento, ma per adeguarsi agli altri paesi d’Europa, e in ritardo, mentre forse l’epoca ne è passata, come col colonialismo. È una finestra aperta sull’Europa, ma in senso provinciale. È la manifestazione del complesso di inferiorità della classe media italiana.
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Nel 1944, caduto il fascismo, Alvaro scrive un ultimo inserto in cui riflette sul radicamento della mentalità fascista nella società italianae sulla mancanza di libertà nonostante la caduta del regime:
Smarrimento dei cittadini e dei giornali. Incapacità di servirsi della libertà dopo tanti anni. Mentalità fascista radicata. Il fascismo non fu soltanto un’invenzione di M., ma piuttosto una creazione della furberia italiana. Qualcuno rimpiange addirittura i tedeschi; cioè l’ostilità di gente in qualche modo affine, più onorevole del disprezzo di quegli altri. Liberi non ci si ritrova.
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