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Il fascino (auto)distruttivo della borghesia in “Padania”. Intervista a Massimiliano Santarossa

Il fascino (auto)distruttivo della borghesia in “Padania”. Intervista a Massimiliano SantarossaMassimiliano Santarossa (Pordenone, 1974) compie proprio questo mese dieci anni di scrittura. Ha esordito con Storie dal fondo (2007) per Biblioteca dell’Immagine; tra i suoi libri Cosa succede in città (2011, Baldini Castoldi Dalai editore) e Il Male (2013, Hacca edizioni).

Sul Romanzo ha raggiunto l’autore per parlare con lui di Padania (2016, Biblioteca dell’immagine), il suo ultimo lavoro che sta raccogliendo ampi consensi di critica e di pubblico. Il romanzo delinea un ritratto famigliare e sociale, raccontando la crisi e le trasformazioni dell’alta borghesia, negli anni della grande crisi economica, nelle regioni del Nord Italia.

 

Io inizierei dalla copertina, che evidenzia una ben famigliare cartina geografica, e dal titolo: cos’è, per lei, la “Padania” attuale – presumo che sia un concetto ben diverso da quello che del termine potrebbe avere, che so, un esponente della Lega – e perché ha inteso etichettare il suo testo come un “romanzo sociale”?

La Padania non esiste. Non esiste storicamente, basta aver letto due libri di Storia, cosa che generalmente nessun leghista ha mai fatto. Pensiamo solo alle differenze che possono intercorrere tra il Friuli Venezia-Giulia e il Veneto, o tra il Veneto e la Lombardia, e a maggior ragione il Piemonte. Storicamente è un non-luogo; a me interessano, a livello letterario, i non-luoghi, da sempre. È qui dove c’è il fermento maggiore, perché i non-luoghi ci sono e non ci sono. Padania, nel titolo, con umiltà, vuole essere anche un tributo e una continuazione di quel che fu Petrolio di Pasolini, pure quello un non-romanzo, cioè un corpo letterario che, con il pretesto del romanzo, contiene un po’ di tutto: dalle digressioni, dati, nomi e cognomi, problemi politici e finanziari, ma all’interno di una condizione letteraria, in questo caso un romanzo famigliare. Come fu all’inizio degli anni Settanta, nell’immaginare il titolo del suo romanzo, Pasolini pensò a un titolo osceno, brutto; se ricordiamo i titoli dei romanzi pasoliniani, anche i libri più violenti avevano titoli molto poetici. Perché volle intitolare un libro Petrolio? Era il titolo che identificava perfettamente quel momento storico. La crisi petrolifera, l’inizio della guerra col Medio Oriente e l’Occidente che sul petrolio, perciò sulla plastica, inizia a implodere su se stesso. Padania, oggi, più in piccolo – anche perché io non sono Pasolini – riassume questo concetto: è un titolo che porta in sé l’aria che respiriamo. Per uno come me, che si è sempre dichiarato marxista, e lo è tutt’oggi, in un momento in cui anche la Storia inizia a rivalutare quelle posizioni, quel titolo assume un intento provocatorio: ha a che fare con una critica sociale e con un preciso momento storico.

 

Perché ha sentito l’esigenza progettuale di offrire al lettore, oltre a una sezione puramente narrativa, un’appendice con un breve saggio sul Nord in forma di Note interpretative?

Ci sono due motivi: un po’ perché il testo ha la vocazione di essere un non-romanzo. Ne avevo già scritti sette di romanzi “puri”, alcuni molto realisti, altri più visionari. L’ultimo, Metropoli (2015, Baldini & Castoldi), aveva addirittura tendenze distopiche. Ho tentato, in modi diversi, di raccontare uno stesso ambiente, quello del Nord Italia, e nella fattispecie del Nordest, dove sono nato e ho messo le radici. Ho pensato che questo non-romanzo fosse per me qualcosa di nuovo; contiene anche fotografie, grafici, report, tante cose, per offrire un “sentire” al lettore. Questo il primo motivo: andare più in là, creare qualcosa di iper-realista, non più solo realismo. L’altro motivo è perché quella sezione è anche il mio “avvocato personale”. Da quando scrivo ho fatto circa 300 tra presentazioni e reading in tutta Italia; ho uno spettro di quel che è questo Paese, anche a livello culturale. Ho sempre ricevuto moltissime critiche per i miei scritti, e anche qualche piccola denuncia. Mi si dava dell’esagerato, del comunista, di “quello che sputa nel piatto dove mangia” e via così. Queste critiche venivano dalla politica, fino agli intellettuali di turno, molto vicini al potere. Con quelle Note interpretative nessuno può dire che imbroglio: è tutto nero su bianco. Quando a Pordenonelegge un politico, un consigliere regionale della mia regione, è venuto a dirmi «Non è vero quel che scrivi in Padania», gli ho risposto: «Guarda che i dati scaricati che ho pubblicato li hai scritti tu, sono .pdf governativi!».

 

L’esergo pasoliniano, in Padania, ha un peso di rilievo: «[…] non appena apre bocca un artista è per forza impegnato, perché il suo aprire bocca è scandaloso, sempre». Il suo è un romanzo a tratti urticante, spigoloso. L’episodio in cui racconta di aver deposto il suo primo libro edito sulla tomba di Pasolini è in buona parte autobiografico. Cosa rappresenta per lei, come scrittore e intellettuale, Pasolini e come ha influenzato la sua scrittura?

Per il quarantesimo di Pasolini mi avevano invitato a mille iniziative; non ho partecipato a niente, per via che l’anno scorso il cadavere di Pasolini è stato abbondantemente sezionato dalla cultura italiana e ne hanno fatto ciò che volevano. Quest’anno posso riappropriarmene, considerato che per i prossimi diciannove sarà dimenticato; ogni vent’anni circa lo recuperano, lui è un’icona della letteratura italiana. Abito, per una questione geografica, a circa 50 metri dalla sua tomba e da quella della madre. Per me è naturale portargli tutti i miei libri, ed è naturale constatare che qualcuno li porta via ogni volta, il che mi rende anche felice. Amo Pasolini per certi aspetti, lo odio per altri. Lo amo per il suo coraggio; andava a chiedere finanziamenti alla Democrazia Cristiana, per fare film come Le 120 giornate di Sodoma. Era un fenomeno in essere, oltre che un grandissimo furbo. La grandezza del suo sguardo è riconosciuta da tutti. Mi ha sempre colpito il modo in cui faceva del suo corpo Arte; il suo passaggio dalla letteratura al cinema, per iniziare a ragionare sul proprio corpo e sul corpo nella società, fare di sé un moderno Cristo se vogliamo. Mi interessa molto – e questo è un concetto tipicamente friulano, che deriva dalla terra, dal legame ancestrale con le proprie radici –, oltre alle poesie in lingua, il suo rapporto da marxista con Dio. Qualcosa di superiore, con una dimensione “altra”. Sono legato al Pasolini storico più che a quello profetico, il suo rapporto con la cultura contadina. Oggi questo aspetto è più importante che mai, più importante di allora. Di corpo arcaico è difficile parlare, nessuno vuole tornare a fare quella vita, ma rivalutare gli aspetti fondanti e i valori della cultura contadina sì.

 

Il fascino (auto)distruttivo della borghesia in “Padania”. Intervista a Massimiliano Santarossa

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Padania è, prima di tutto, il racconto di una vicenda privata: il dramma esistenziale di Max, lo scrittore di successo che non trova più la forza di scrivere altri libri in un mondo che nel frattempo si è rovesciato. La sua famiglia a pezzi: una splendida moglie in carriera nel mondo della moda, operosa e sempre indaffarata a sedare un dolore insanabile: la morte della figlia più piccola, per malattia. Il difficile percorso di un padre che cerca di ricostruire il rapporto e la comunicazione col figlio adolescente. Sotto la sua lente c’è una borghesia italiana che va lentamente sgretolandosi, negli ultimi decenni e con l’avvento della crisi economica. Questo non riguarda solo il Nord ma tutto il paese. Cosa sta accadendo?

Padania è un romanzo che intende rappresentare quella ch’era un po’ la medio-alta borghesia, quella che aveva sostituito l’aristocrazia, per capirci. Una borghesia ricca, lombardo-veneta, perché è quella con maggior potere economico, o almeno lo è stata. La borghesia che aveva creato la fortuna del Nordest negli anni Novanta, la zona più florida d’Europa, che esportava di più, con un livello di disoccupazione pari a zero. Se non lavoravi, all’epoca, eri uno che non aveva voglia di far nulla, si viveva nella società opulenta e tendente alla perfezione per alcuni. Questa fascia sociale è quella che di più ha subito la crisi economica, questo lo sappiamo perché dalla produzione di beni materiali ci si è spostati via via verso la finanza. I ricchi che per primi hanno annusato l’avvento della crisi, si sono spostati all’estero, ma soprattutto sono cambiati: hanno iniziato a ragionare a livello finanziario. Hanno chiuso le fabbriche e spostato i capitali nelle banche e nelle speculazioni in borsa. Quelli sono diventati ancor più ricchi; i poveri quello erano e quello sono rimasti. La vera rottura si è avuta nella borghesia, chi si poteva permettere molto, prima, ha iniziato a soffrire poi. Quella era la spina dorsale del paese, aveva il maggior potere d’acquisto e capitali in banca. Impoverita la fascia borghese è crollata tutta la società. In altri miei libri ho raccontato spesso dal punto di vista dei poveri; in Padania ho inteso invece imperniare il racconto dal punto di vista di due ricchi. I miei personaggi vivono meglio di quei ragazzi sbandati che raccontavo nei libri precedenti, hanno un miglior tenore di vita, ma il disagio e le paure sono sempre quelle. Ne risulta che alla fine del circo siamo tutti poveri, a livello umano intendo, abbiamo tutti le stesse paure. La figlia, in Padania, è una metafora delle cose importanti che si perdono e la riscoperta di una delle parti dell’amore, le più semplici e durature, come può essere l’amore di un padre per un figlio.

 

In Padania lei racconta delle recinzioni metalliche, delle barriere erette dai ricchi imprenditori veneti e lombardi per proteggere i loro “paradisi borghesi”. Sono molto simili ai muri eretti in Austria e in Ungheria, o a quelli che vuole erigere Trump al confine col Messico e alle dogane. «Dentro le persone. Fuori i mostri

La recinzione del ricco è una rete microscopica ma ha proprio questo senso. È un ragionare per metafore: anche la vecchia che se ne sta tutto il giorno a spazzare il marciapiedi ha quel significato. Esistono davvero queste persone. L’ex-imprenditore che prima dirigeva una fabbrica con 5.000 operai e ora ha come unico obiettivo passare il tosaerba nel suo giardino curato; la riunione condominiale in cui questi ricchi si sbranano per il parcheggio, siamo sempre lì, sono spaccati della nostra realtà. L’alzare reti come se fossimo ad Alcatraz; dentro una villa splendida, ma da fuori ti dici: cosa vogliono proteggere o rinchiudere? Sembra un fortino di narcotrafficanti.

 

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Nel suo romanzo si raccontano anche le feste del potere, le notti a base di cocaina e ammucchiate, nella discrezione delle grandi ville venete e nei palazzi lombardi. Il sesso e la pornografia, in particolare, sono presenti in vari momenti della narrazione. Pensa che la sessualità, inPadania, costituisca una forma di prevaricazione e abuso, espressa dal potere, oppure la mercificazione del corpo come ultima frontiera del guadagno e dell’immagine?

Non è la parte più interessante del libro: di sesso scrive chiunque e se ne può leggere ovunque. Mi premeva raccontare, alla fine di un capitolo, nel corso di una di queste orge private, di quando il protagonista vede una donna e pensa: «lei è Cristo». La prostituta è Cristo, il Cristo migliore che ci sia. Pubblicamente, molte donne che hanno letto il capitolo si sono arrabbiate con me. Anche quando lei afferma: «Sì, tutte vogliono essere possedute. Violentate». Mi hanno crocifisso per questo passaggio ma poi, in privato, mi hanno dato la mia parte di ragione. La mia idea era di riflettere sul come certe donne si donino, perché lo fanno. Più che lo sfruttamento del corpo femminile, ch’è evidente, il mio tentativo era quello di capire perché continuino a donarsi, e spesso volentieri, in quel modo. Cosa nasconde questo bisogno di darsi all’uomo? La figura di quella donna è, secondo me, piuttosto emblematica di questo “farsi Cristo”. Criticare l’uomo, non volerci stare, a livello sociale e politico, ma nella penombra dei salotti, tra i divani delle ville dei ricchi, il darsi completamente, come nella migliore tradizione cristiana, come sacrificio di sé, come bontà insuperabile. La donna come creatrice, come madre e come essere che sa perdonare.

 

Nel libro c’è un “dialogo verità”, in cui Max raccoglie le confidenze di un ex-consulente di grandi aziende nazionali e multinazionali. Evasione fiscale, corruzione, politiche demagogiche, scempio del paesaggio, eccetera. L’arte, per certi aspetti, anticipa e annuncia la realtà. Come vede uno scrittore come lei il futuro prossimo di questo paese?

Non bene. Ho due figli, e lo vedo prima da padre che da scrittore. Stiamo assistendo al verificarsi di un progetto organizzato da tempo. Tutta la bassa Europa – ovvero Portogallo, Spagna, sud della Francia, tutta l’Italia, la Grecia (piuttosto avanti) – la vedo come un’Europa di serie B, governata da un’Europa di serie A, cosa che avviene già. Posso immaginare un’ipotetica doppia o tripla moneta, in un prossimo futuro, dove la nostra, quella italiana, sarà una moneta con valore sostanzialmente più basso. Una zona europea, la nostra, in grado di concorrere direttamente col Brasile, con la Cina e con l’India. Torneremo, senza tanti giri di parole, molto poveri. Non è, d’altronde, un disegno troppo futuristico: se guardiamo ai tagli alla ricerca, all’istruzione, alle proposte delle multinazionali rispetto alle sedi italiane, da Electrolux all’automobile, passando per le lavorazioni della plastica, il diminuire se non dimezzare gli stipendi in questi paesi sono tutte proposte atte a realizzare questo disegno. Si tratta di realizzare una zona d’Europa che possa concorrere direttamente con i grandi paesi che producono materie a bassissima qualità, per cui Cina, India e Brasile. D’altronde, se io mi svincolo dal lato morale di padre e di scrittore, sembrerebbe l’unico modo di concorrere con quei paesi. In Italia non si inventa più nulla; chi vuole fare ricerca va all’estero, non abbiamo più capacità d’innovazione, da questo versante siamo in degrado. D’altro canto le spese per le infrastrutture, la sanità, i servizi hanno costi altissimi. La scelta su questa fascia d’Europa è stata: impoverirla per renderla concorrenziale sul mercato globale. Tutto il resto diviene appannaggio della fascia alta d’Europa. Dalla Germania in su.

 

Ci sono alcune “gemme” in questo romanzo, la Lettera a un giovane lettore e il racconto Io, ragazzo operaio, lavori già pubblicati in altre sedi. Come mai ha inteso includerli in Padania?

Si è trattato di un gioco di specchi. Recuperare alcune parti di miei precedenti libri mi ha dato modo di conversare anche col pubblico delle presentazioni su quanto ci si può spingere nel creare nuovi registri, contaminazioni: il saggio, la narrativa, gli inserti, quanto ci sono io e quanto invece non ci sono. Anche la perdita di quella bambina: io non l’ho vissuta, ringraziando il cielo, ma quanto è vicina ad altre perdite che ho vissuto io e che puoi aver vissuto tu. Tante perdite possono essere individuate, in senso metaforico, in quella bambina.

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Rispetto ai suoi lavori precedenti, Padania è stato visto da alcuni critici come un ritorno al realismo. Covacich, Mozzi, Trevisan, Bugaro, Villalta, Garlini e scrittori che hanno espresso in qualche modo le trasformazioni del Triveneto – quello che negli anni Novanta veniva etichettato come il Nordest – si sono riconosciuti in un discorso improntato al realismo. Secondo lei questo realismo sta perdendo di vigore? È ancora possibile calarsi nella realtà, in una società così “liquida”, oggi, per uno scrittore?

Io faccio anche l’editor da più di vent’anni. Il territorio lo conosco, così come conosco la letteratura italiana. C’è stato un buco molto grande, in tutti gli anni Ottanta e nei primi Novanta, in cui nessuno si occupava più del realismo in Italia, tanto meno in queste zone. I nomi che ha fatto sono un nuovo realismo; in un dato momento, quel genere letterario al quale anch’io mi rifaccio, vive un momento di fioritura. Prima gli autori facevano altro, facevano romanzi storici, ad esempio. Dopo gli anni Settanta, dopo la grande sbronza del realismo al cinema, in musica, nella letteratura, in politica, dalle Brigate Rosse agli Anni di piombo, l’uscita da quella fase storica ha comportato che ogni genere d’arte fosse arte leggera. C’era bisogno di dimenticare, di evadere. Per quindici anni non si è fatto più niente, poi l’avvento della nuova crisi economica e di nuove tensioni nel mondo, dalla metà degli anni Novanta in poi, ha fatto sì che tornasse un realismo forte. Ora si tratta di vedere: quelli più giovani, anche il sottoscritto, iniziano ad avere 45/50 anni, perciò giovani non lo siamo più. Si tratta di capire cosa succederà dopo questa nuova fase di realismo. Per ora siamo all’apice, a mio avviso. Tanto che libri come Works di Trevisan sono molto amati dalla critica letteraria; nel mio caso Padania è stato il mio lavoro più venduto. La scorsa settimana ho riempito un teatro da 500 posti per presentare uno spettacolo legato al romanzo. Non lo avrei mai immaginato, durante la mia carriera, scrivendo queste storie, di arrivare a risultati come questo. Quando ho iniziato non veniva ad ascoltarmi neanche mia mamma, perché erano i primi libri miei, o quelli di Covacich, per esempio. Si trattava di libri davvero disturbanti. Oggi siamo autori molto scontati, questi numeri nei teatri significano che sei troppo compreso, perciò sono libri inutili, in questo momento, per ragionare sulla critica della società.

 

Mi dica se le prospettive cupe di Padania offrono qualche possibilità di riscatto e se sta lavorando a un altro progetto o, come dicono alcune fonti, Padania sarà il suo ultimo romanzo per molto tempo, forse per diversi anni.

In Padania è evidente, nell’ultimo capitolo, il percorso umano di questo altoborghese a cui tutto è andato bene, che ha fatto successo con i libri (ma potevano anche essere scarpe), lui che ha più soldi di quanti ne possa spendere e a un certo punto sceglie una via “altra”, un enorme riscatto umano, nelle ultime righe. La scelta che fa, intima, piccola, umana, è l’ultima scelta possibile in questo territorio. Questa scelta la puoi declinare anche a livello economico, se hai lo sguardo lungo per farlo: investire nel quotidiano, ritrovare il rapporto con la famiglia, la comunicazione con i figli. Al momento sto lavorando col teatro; da Padania è nato uno spettacolo, non è un semplice reading. È la storia di un ragazzo che entra in fabbrica a 15 anni e racconta l’evoluzione del Nordest fino a oggi. Lo stiamo portando nei teatri regionali con grande soddisfazione artistica. Lavoro con un cantautore, Pablo Perissinotto. Stiamo lavorando a uno spettacolo sui migranti che andrà in scena il prossimo anno. Il mio futuro, per i prossimi cinque anni, sarà fatto di solo teatro. C’era un grande romanzo al quale stavo lavorando, ma credo ci vorranno diversi anni per farlo uscire.


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Per la foto di Massimiliano Santarossa (la prima, in alto a sinistra) si ringrazia Donata Cucchi.

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