Il dolore di sentirsi uno zero. “Non ho mai avuto la mia età” di Antonio Dikele Distefano
Cosa vuol dire essere diversi? Quando si parla di diversità si utilizza quasi sempre un’accezione negativa. È diverso tutto ciò che non è uguale al nostro modo di essere, pensare e vivere. Il diverso spaventa e va pertanto allontanato. La società di oggi, fondata sull’apparire portato alle estreme conseguenze, induce al conformismo più che mai. Per essere accettati occorre essere uguali, vestirsi allo stesso modo, tagliarsi i capelli secondo le regole dettate dalla moda, leggere il libro che leggono tutti, pensare come pensano tutti. Di contro cos’è la normalità? Quali leggi stabiliscono cosa è normale o cosa non lo è? Sia la diversità che la normalità si basano semplicemente su giudizi, su valutazioni di cose o persone imposte dalla società.
Da dove ha origine la dicotomia aberrante che stabilisce che il bianco rappresenta il bene e il nero il male? Sono questi alcuni quesiti che lascia la lettura del romanzo di Antonio Dikele Distefano Non ho mai avuto la mia età (Mondadori). Un libro che con un’intensità straordinaria riesce a toccare non solo tematiche importanti, come è quella del razzismo, attuale più che mai in Italia dato che ogni giorno avvengono innumerevoli sbarchi d’immigrati che, anziché essere visti come persone che lasciano la propria patria e tutto ciò che è loro più caro in cerca di una vita migliore, sono etichettati in maniera denigratoria come invasori. No, Antonio Dikele Distefano tocca pure altre corde, quelle più profonde che riposano dentro ognuno di noi e che a conclusione del romanzo ti fanno provare stati d’animo diversi e concatenati, come rabbia, lacrime, odio per le ingiustizie, desiderio di consolazione, bisogno di ribaltare le cose…
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Non ho mai avuto la mia età è la storia di Zero, di quello zero che si prende ai compiti in classe inteso come non classificabile, di zero come un «valere zero», «essere uno zero», perché è esattamente così che il protagonista si sente. La sua è una storia tutta in sottrazione, poiché la vita più che darti, ti toglie ogni giorno qualcosa e Zero non possiede niente. A sette anni ha dovuto brutalmente capire che le persone possono pure decidere di abbandonarti, di sacrificarti per una nuova relazione, come ha fatto sua madre. Zero è povero, vive in un quartiere popolare, e alcuni giorni tornando a casa da scuola va direttamente a letto perché non c’è da mangiare. Zero non si aspetta più nulla dal futuro, è stato costretto a crescere troppo in fretta e non ha mai avuto la sua età.
Zero, il cui vero nome scopriremo solo alla fine della storia, in un arco temporale che ricopre la sua età dai sette ai diciotto anni, ha compreso che la vita non sempre ti dà quello che pensi di meritare, che spesso ti fa provare la sensazione di sentirti come se tutti fossero nel posto giusto, e tu fossi quello sbagliato e ciò solo perché hai un colore di pelle diverso e se sei nero la gente non vede in te un essere umano, ma un «oggetto da evitare».
Avere la pelle nera significa personificare il male e l’uomo bianco glielo ricorda di continuo. Se entri in un negozio i commessi ti guardano con sospetto pensando tu voglia rubare. Se «gli sbirri» ti fermano mentre sei in auto credono di trovarti con a bordo della droga, e se non trovano nulla devono comunque appiopparti una multa cercando qualunque pretesto, come non portare la cintura di sicurezza seduto dietro (chi mai indossa la cintura di sicurezza quando siede sui sedili posteriori?). Se una ragazza bianca viene stuprata, a essere incolpato e arrestato è subito il nero.
Per la società il nero è un criminale, un invasore, un ospite e i bianchi si stupiscono persino quando parlando con un africano si accorgono che parla l’italiano meglio di loro, dato che è la loro lingua, e non la sua. Ma in questa società è il colore della pelle a definire chi sei, «la tua pelle negro di merda ha una storia che tutti conoscono a memoria anche se hai un nome, anche se fai carriera». Nei libri di storia d’altronde s’inizia a parlare degli africani solo quando comincia la tratta degli schiavi, mentre prima era come se non fossero mai esistiti.
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Le persone di cui potersi fidare sono poche, alberi ai quali sorreggersi e aggrapparsi in cerca di conforto e condivisione, come i tre amici insieme ai quali cresce, Inno, Sharif e Claud, e con i quali ama rifugiarsi sul tetto di un centro commerciale, «il tetto del mondo», come lo definiscono loro, un luogo dal quale poter esprimere tutto ciò che si desidera, tutti quei «voglio» urlati al cielo, alla luna e a Dio non concessi dalla vita. E poi c’è Anna, una ragazza bianca che gli fa capire che i bianchi non sono tutti uguali e che l’amore è capace di cancellare paure e pregiudizi. Ma anche quei pochi attimi di felicità trascorsi insieme a lei Zero non riesce a goderseli pienamente, poiché più che a viverli pensa a proteggerli prima che la vita possa sottrargli anche quelli. E infatti la vita non fa sconti a gente come lui e la piega tragica che a un certo punto gli avvenimenti narrati prenderanno daranno conferma sul fatto che il destino non è benevolo, che «i bianchi nei neri vedono sempre qualcosa di cattivo», e che tuttavia questi bianchi dimenticano che l’identità di una persona non è la patria o il colore della pelle a darla e che non spetta loro quindi stabilire chi tu sia.
Per la prima foto, copyright: Andre Hunter.
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