Il dolore di perdere un figlio. “Solo un ragazzo” di Elena Varvello
Se credete sia difficile raccontare una perdita, pensate quanto possa esserlo tracciare i lineamenti di chi la vive in prima persona; sviscerare i pensieri struggenti inflitti dalla morte di un fratello oppure indugiare sul cuore pesante di chi affronta il dolore più grande, sopravvivere a un figlio.
Se un modo c’è, è dire «Tutta la verità. Ma obliqua» («Tell all the truth but tell it slant», come suggeriva Emily Dickinson), ed Elena Varvello, come affida all’epigrafe, lo fa in una maniera delicata e avvincente.
Racconta una normalità incrinata, fatta di quotidianità taciute, problematiche spigolose e oscurità ingombranti.
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Vissuti e reazioni contrastanti, tragedie sospese e fraintendimenti volontari, stipati a forza in una cittadina che nasce, vive e si trasforma sotto gli occhi del lettore; un luogo dove le case hanno un’identità, spesso felice solo in apparenza; profondamente ferite. Dove gli edifici custodiscono segreti. Case violate, tenute in piedi a forza, minate da distanze e incomprensioni e baracche improvvisate da poter chiamare “casa”.
Aleggia sopra quegli edifici, Solo un ragazzo (Enaudi, 2020), il nuovo romanzo dell’autrice torinese, Elena Varvello; un’alienante storia che fotografa gli effetti devastanti della perdita.
Un intreccio cronologico avvincente sviscera la storia analizzando le reazioni alla vita che accade, di Sara e Pietro, delle figlie Amelia e Angela e dell’ultimogenito, fulcro attorno a cui ruota tutto il libro, “solo un ragazzo”.
Eventi che trascinano nel loro incedere precipitoso anche ciò che è di contorno alla famiglia, i loro vicini Gemma e Carlo, la figlioletta Silvia, gli abitanti del paese, i compagni di scuola, il liceo dove lavora Pietro, la stazione di servizio e la spiaggia che, con l’incedere degli anni, diventa una discarica.
Come evoca l’immagine della copertina, tra le pagine c’è un ragazzo dentro a un ragazzo; afflitto dall’incertezza dell’adolescenza, insicuro della propria identità, in cui il bene e il male stridono e convivono contemporaneamente, un involucro scarno dai capelli lunghi che in una torrida estate di fine anni Ottanta, riesce soltanto a sentire freddo. A difenderlo, solo una felpa col cappuccio.
Un ladro senza coscienza, che arraffa oggetti dalle case dei vicini, feticci che per lui hanno un significato, celato al lettore, che custodisce sotto al letto ma che nega di aver rubato.
“Protetto” da un cacciavite, si spinge oltre il limite, mostrandosi nella sua natura di delinquente a casa dei vicini Gemma e Carlo; il misto di adrenalina, paura e potenza provato quella notte lo porta a vedersi con gli occhi degli altri e quella consapevolezza, elaborata e maturata nel tempo, lo porterà a esalare l’ultimo respiro in garage, annaspando accanto all’auto del padre accesa, nudo, indifeso, incompreso.
Di lui sopravvive soltanto una capanna in mezzo al bosco, rifugio sicuro che costruisce con le proprie mani; un groviglio di lamiere, compensato e edera, ingarbugliato come la mente che lui stesso non è in grado di comprendere.
A lui sopravvivono i feticci rubati e quel che resta della famiglia.
I genitori svuotati, le sorelle smarrite: i primi troppo impegnati a negare la diversità del ragazzo; le seconde troppo occupate a seguire i loro conflitti adolescenziali per accorgersi dei drammi del fratello. Un ragazzo, solo un ragazzo, troppo gentile, troppo sorridente, troppo tranquillo; troppo incompreso, troppo strano perché qualcuno si azzardasse a comprenderne i misteri.
Una famiglia lacerata dal dolore, distrutta dai sensi di colpa e dal fallimento, incapace di sopravvivere alla sofferenza, seppur costretta a farlo.
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C’è un ragazzo, ma ciò che anima la storia sono gli effetti della sua assenza e il rimorso per la perdita. Un rimpianto che si può riassumere in un’unica citazione dal libro:
«Chi sei?»
«Sono tuo figlio.»
Interessante sarebbe poter chiedere a Varvello il nome del ragazzo. L’appella sempre con un “lui” impersonale, lasciandolo senza volto, di spalle, stretto in quel cappuccio, solo l’azzurro dei suoi occhi a dare una parvenza di colore. Come se conoscendone il nome, il lettore potesse alleviare un po’ di quel dolore.
Per la prima foto, copyright: Christian Erfurt su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui
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