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“Il dio del massacro”, o Della trasposizione

Il dio del massacro«Un salotto. Nessun realismo. Nessun elemento inutile.»: questa la didascalia che apre Il dio del massacro, opera di Yasmina Reza, drammaturga, tre volte vincitrice del Premio Molière. Il testo, pubblicato nel 2009 da Arcadia & Ricono, col titolo Il Dio della carneficina, è stato recentemente ri-edito da Adelphi (con traduzione di Laura Frausin Guarino ed Ena Marchi) e munito dell'immancabile fascetta atta a ricordare ai meno accorti che da questo libro è stato tratto il film del maestro Roman Polanski. Pellicola peraltro più che lodevole, interpretata da un quartetto indimenticabile: Jodie Foster, Kate Winslet, Cristoph Waltz e John C. Reilly.

Come nelle opere migliori, l'innesco narrativo è dei più semplici, e quasi banale: ai giardini pubblici, due ragazzini litigano; uno dei due colpisce l'altro e lo ferisce. Le rispettive coppie di genitori si danno appuntamento a casa della “vittima”, per risolvere la faccenda come si conviene alla gente civile. Tuttavia, quella che apparentemente sembrerebbe una questione di poco conto, finisce per sfociare in quel metaforico “massacro” presente nel titolo. Interessante, proprio a questo proposito, notare come quello originale, Le dieu du carnage, nel nostro idioma abbia conosciuto due traduzioni allo stesso tempo così simili e così diverse, in particolare per quanto riguarda (e non sembri una cosa da nulla) “Dio” che diventa “dio”, così, a causa di (o grazie a) una consonante che diventa minuscola, facendo cambiare quasi completamente le coordinate principali di riferimento. Modifica felice, a nostro parere.

Notiamo, a questo proposito, che c'è una battuta, nella seconda metà dell'opera, pronunciata dal personaggio di Alain (Alan nella versione cinematografica di Polanski), e questa battuta suona così:

 

«Véronique, io credo nel dio del massacro. È il solo che governa, dalla notte dei tempi.»

 

Affermazione consuntiva, si potrebbe dire, visto l'accantonamento delle sovrastrutture che viene, con crudele sistematicità, operato in tutto il corso della pièce. Le meccaniche che regolano il nostro mondo, e segnatamente quella che, forse con qualche eccessiva pretesa viene chiamata “la civiltà occidentale”, nella sua interezza e complessità, dalla dimensione del salotto medio-borghese degli Houllié, ai grandi fatti della Storia, sono quelle della brutalità, del sopruso, del soverchiamento; sono le potenziali “carneficine” alle quali facciamo, o tentiamo di fare, ricorso in ogni giorno della nostra esistenza.

Dalla progressista Véronique, scrittrice, attivista, appassionata alle vicende del Darfur, all'avvocato Alain il quale, mentre la discussione tra i quattro si anima sempre di più, è impegnato in una conversazione telefonica, a più riprese, necessaria per redigere il comunicato stampa di risposta, da parte di una casa farmaceutica, all'accusa di commercializzazione di un farmaco dagli effetti collaterali quantomeno discutibili; da Annette, apparentemente una sobria e dolce consulente dai modi raffinati, a Michel, bonario commerciante; tutti votati alla distruzione l'uno dell'altro.

Quello che fa Yasmina Reza è, “semplicemente”, mostrare come, rifacendoci alle celeberrime tre corde di Pirandello, al di sotto dell'atteggiamento civile, mediante il quale interagiamo in società, si agita una mistura di sentimenti che rappresentano indici, in ultima analisi, della nostra “animalità”. Una matrice letteraria praticamente perfetta per Polanski, il quale, fatti salvi alcuni passaggi minimamente adattati alla cinematografia, si limita, ed è un gran bel limitarsi, a dire il vero, a riprodurre (e qui torniamo a Pirandello, e in particolare ad una definizione di Macchia sullo scrittore agrigentino) una “stanza della tortura”.

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