Il demone del maschio. “L’animale che mi porto dentro” di Francesco Piccolo
«Un uomo non si metterebbe mai a scrivere un libro sulla situazione particolare di essere maschio.» Questa la certezza di Simone de Beauvoir, nella rivoluzionaria e ardita opera Il secondo sesso. Francesco Piccolo, Premio Strega 2014, col romanzo L’animale che mi porto dentro (Einaudi 2018) la chiama a singolar tenzone, e vuole dimostrare che, se Freud tanto ha indagato la sessualità femminile, il maschio sa dare parola scritta pure a quel demone/animale che si porta dentro. Ma riflettiamo: cosa mai ha fatto quel genio di Platone nel Simposio e nel Fedro se non attraversare col pensiero, in modo ineguagliabile, il mistero dell’eros maschile?
La scommessa di Simone de Beauvoir è persa in partenza, e lo dico da donna: anche i maschi, fin dalla antichità, hanno dato voce alla propria sessualità, eppur sotto le mentite spoglie del mito. Così, Platone celebra, nel discorso di Diotima del Simposio, l’eros in modo che nessuno mai potrà raggiungere: questo demone, né uomo né dio, né povero né ricco, né maschio né femmina, ci sta dentro ed è impossibile liberarcene, perché è il nostro linguaggio stesso che è erotico, è la natura umana che si traveste di parole, che sta lì a guardarci nello specchio della nostra interiorità.
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La sfida raccolta da Francesco Piccolo è però oggi, tempo in cui il maschio è indubbiamente in crisi, degna di ogni considerazione, ma non sempre all’altezza del tema. Parlare di eros non è facile, quando qualcuno lo ha già fatto declinandolo in tutte le forme, toccando i vertici della poesia pura. Il demone del maschio è di tal prepotenza, così poco addomesticabile, così vissuto nel branco animalesco, che le parole stentano a dare voce all’ineffabile. La penna, benché abile, di Piccolo fatica, perché è nell’ordine stesso delle cose non eguagliare il mistero. Per quante giustificazioni ci si possa dare e per quanto si voglia padroneggiare una materia che scotta, è la missione stessa che è destinata, almeno parzialmente, allo scacco. Così, benché il protagonista dell’opera, l’autore stesso, riflettendosi nella sbiadita figura femminile della moglie, si creda “stocazzo”, specie dopo il successo arriso dal Premio Strega, e abbia l’ambizione di piacere a tutte le donne, come un maschio alfa indomito e selvaggio, dovrà fare i conti con la natura umana della sessualità, che è poi la nostra profondità. Dice Eraclìto, che, per quanto l’uomo possa correre, saltare e agitarsi, non riuscirà mai a toccare la profondità dell’Essere. Nulla di più vero: il romanzo di Piccolo ne è ancora una volta la dimostrazione lampante. Quali parole dare, insomma, a questo animale che il maschio ha dentro? È possibile tradurre ciò che più ci appartiene? Io penso di no, a meno che non si sia sommo poeta, e Piccolo, pur abile e dotto, non comunica il “problema” della sessualità maschile con quel pathos che la materia stessa merita, seppur gli si riconosca la dovuta antifrasi per alleggerire un contenuto non a misura umana. Ci vorrebbe un Dante dell’Inferno per dare la giusta denotazione pittorica al fattaccio oggetto di indagine.
Piccolo si porta dentro la consapevolezza “umana, troppo umana” che a nulla servono l’arte, la letteratura, l’intelletto ordinante la tavolozza istintuale ad addomesticare la bestialità del maschio. Tutte le volte che egli sembra avvicinarsi a una soluzione, rinvia nel testo al medesimo interrogativo, che ha un’implicita risposta: il sesso è l’unico “Atto” che davvero rappresenta il maschio, e, per quanto questi sia sensibile e sentimentale, sente la bestia dentro che urla e che «si prende tutto, anche il caffè», come canta Battiato, che, con una canzone, ha reso l’idea del “dramma” di essere maschio più di quanto non ha potuto fare Piccolo in oltre duecento pagine. E perché sia chiaro: non per limiti dello scrittore, ma perché il tema si presta più a un poeta che a un prosatore.
È di chiara evidenza in Piccolo che l’essere maschio è, in primis, un fatto educativo, il risultato di millenni di storia e di condizionamenti, una sovrastruttura culturale per cui l’animale coincide con l’erezione, e la vita del singolo scompare in quella del branco. Questa identificazione risale fin all’adolescenza, quando il protagonista osserva il suo pene crescere e i suoi brufoli sfigurare il volto, e questo passato lo condizionerà per tutta la vita, perché se c’è una cosa di cui non possiamo liberarci è quel patrimonio di esperienze che ci ha accompagnato specie nella fase evolutiva. Il maschio alfa osserva il giovane che è in lui, e lo comprende, nel senso latino dell’abbraccio solidale con tenerezza e ironia.
Questa osservazione che Piccolo fa di sé, impietosa, profonda, ma anche scherzosa, gli rende merito, per cui a pieno titolo l’opera diventa un romanzo di formazione sentimentale, perché l’obiettivo sarebbe quello di integrare tenerezza e prepotenza sessuale. È possibile questa operazione? Piccolo solleva dubbi per tutta l’opera e una risposta non c’è, perché il problema sessuale è sempre aperto nel maschio non meno che nella donna, e non a caso l’analisi psicoanalitica è infinita. Quando sembra che l’integrazione sia avvenuta e il processo sia arrivato a maturazione, ecco rispuntare la bestia: liberarsi coinciderebbe con l’amputazione di un arto o, addirittura, con l’espianto di un organo vitale. L’animale, specie in un maschio del Sud, come il protagonista Piccolo, si fa sentire, irrompe sotto la pelle, squarcia il corpo, la mente e il cuore, dilania e impone la sua legge: questo il messaggio che mi sembra di evincere dal testo di grande attualità, viste le tante donne che cadono vittime della brutalità di chi non accetta l’abbandono, come se si trattasse dell’amputazione dello stesso pene. Aveva, almeno in questo, davvero ragione Simone de Beauvoir: essere maschio è davvero una condizione particolare.
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Onore a chi ha affrontato una materia che scotta con un bellissimo incipit: «La prima volta che mi sono fidanzato, non ero presente. Il momento in cui Federica mi ha detto sì, non l’ho vissuto, ne ho un resoconto frettoloso. Ne so pochissimo perché non c’ero. Invece, quando mi ha lasciato, c’ero anch’io.»
Di qui l’indagine sul primo abbandono che il protagonista vive con una drammaticità folgorante, piangendo per ore, fin quando non si avvede di aver fame: la bestia vuole pur mangiare e lo spirito di sopravvivenza ha la meglio; istinto che è più forte nel maschio che nella donna che «diventa più verde dell’erba ed è vicina al morire» quando vede il suo amato/la sua amata volgere lo sguardo altrove. Ma qui tocchiamo i vertici del sentire poetico: che il demone della donna sia più devastante di quello del maschio?
Per la prima foto, copyright: Soroush Karimi su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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