Il cuore nero della provincia francese in “Tre giorni e una vita” di Pierre Lemaitre
«Si prende un dettaglio da qualcuno, un dettaglio da un altro; dall’amico di sempre o da un tizio appena intravisto sul marciapiede di una stazione, in attesa del treno. A volte si fa propria una frase, un’idea da un fatto di cronaca letto sul giornale. È questo il modo di scrivere un romanzo; non ce ne sono altri». Queste parole di H.G. Wells sono fatte proprie da Pierre Lemaitre nelle pagine intitolate “Gratitudine” alla fine del suo nuovo libro, appena pubblicato da Mondadori nella traduzione di Stefania Ricciardi: Tre giorni e una vita.
Lemaitre, vincitore del premio Goncourt nel 2013 per il romanzo storico Ci rivediamo lassù, ed importante continuatore della tradizione del noir francese, racconta in questo libro la vicenda di un ragazzo, il dodicenne Antoine Courtin, che vive in una triste cittadina della provincia francese, Beauval, dove alla fine del dicembre 1999 accaddero «una serie singolare di fatti tragici… il più terribile dei quali fu sicuramente la scomparsa del piccolo Rémi Desmedt».
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Rémi è stato assassinato. A ucciderlo è stato proprio Antoine, vicino di casa della famiglia Desmedt, in un accesso di rabbia quando si trovavano nella foresta di Saint-Eustache. Ma perché quell’assassinio? Perché pur non volendo uccidere, Antoine aveva colpito violentemente con un bastone il viso del piccolo? Il ragazzo era rimasto scioccato dall’episodio di cui era stato testimone appena qualche giorno prima: il padre di Rémi, il signor Desmedt, aveva finito con un colpo di fucile il suo cane, Ulisse, che era stato investito da una macchina. Il cane giaceva a terra, una zampa e alcune costole rotte, e il signor Desmedt, senza nemmeno chiedere l’intervento del veterinario, non ci aveva pensato due volte a dare il colpo di grazia all’animale. Il corpo di Ulisse era stato poi gettato dentro un sacco dei rifiuti fuori la casa dei Desmedt («Si svolse tutto così in fretta che Antoine rimase a bocca aperta, incapace di articolare anche una sola parola. Del resto il signor Desmedt era rientrato in casa e aveva chiuso la porta. Aveva lasciato il sacco grigio con i resti di Ulisse all’estremità del giardino, insieme agli altri, pieni dei detriti della conigliera che aveva demolito la settimana prima per costruirne una nuova»).
Antoine perdeva così il suo forse più affettuoso compagno di giochi: «quella perdita faceva dolorosamente eco alla solitudine degli ultimi mesi, a tutto un sommarsi di delusioni e batoste». Infatti, Antoine è un ragazzo solo che vive con una madre irritante e malmostosa, la signora Blanche, in una bolla soffocante, estenuante di doveri e prescrizioni («C’erano sempre pulizie da fare, qualcosa che mancava da andare a comprare e raccomandazioni a non finire: riordina la camera, in frigo c’è il prosciutto, mangia almeno uno yogurt e un po’ di frutta e così via»). Il padre è un’entità ormai assente e lontana (abita in Germania).
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La figura maschile per Antoine è monopolizzata proprio dal signor Desmedt, con i suoi tratti da belva («era un uomo taciturno, irascibile, solido come una quercia, con folte sopracciglia e un viso da samurai furioso, sempre sicuro di trovarsi dalla parte della ragione, il tipo che non cambia opinione facilmente»). La ragazza che Antoine desiderava allora, Emilie, non aveva capito cosa significasse quella capanna che lui aveva costruito sopra un albero, dentro la foresta, e quell’incomprensione aveva finito col rafforzare la sua incomunicabilità di adolescente. Solo il piccolo Rémi aveva avuto l’ardire, il coraggio di spezzare il suo isolamento e ora il suo corpo veniva adagiato da Antoine dentro una fenditura della terra nel bosco di Saint-Eustache. Da quel momento la vita di Antoine sarà indissolubilmente legata alla colpa, alla paura di dover scontare la maggior parte della sua vita in galera. Di dover rinunciare alla libertà. Ma è possibile sfuggire al destino, cancellando le tracce del proprio delitto? È possibile fuggire per sempre da Beauval (ora l’unico “chiodo fisso” per il ragazzo)?
Antoine cresce, diventa un uomo. Si allontana dalla provincia e va a Parigi a studiare. Alla fine degli studi vuol diventare una sorta di “medico senza frontiere” e nel corso degli anni muta anche il suo atteggiamento nei confronti del delitto perpetrato: «Ciò che negli anni era cambiato e che intristiva Antoine, non era tanto essere condannato a non parlarne mai con nessuno, quanto constatare che l’ordine delle sue priorità si era invertito: in cima a tutto non c’era più il bambino che aveva ucciso. Tutti i suoi sforzi, tutta la sua attenzione erano rivolti verso se stesso, verso l’aspirazione alla propria sicurezza, all’impunità… Il personaggio principale di quella tragedia non era più la vittima, ma l’assassino». Quel chiodo fisso comunque rimane: fuggire per sempre da Beauval. Dalle radici, come quelle intrecciate e mastodontiche degli alberi della foresta di Saint-Eustache, che lo tengono legato a filo doppio a quella terra…
Lemaitre ha una lingua letteraria potente ed efficace. Leggendo Tre giorni e una vita non si può non pensare agli ambienti provinciali e meschini tante volte descritti, con insuperabile maestria, da Georges Simenon (un altro degli autori citati alla fine del libro).
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Lemaitre, proprio come il grande scrittore belga, sa inoltre rendere la fisicità quasi “animalesca” del rapporto uomo-donna, una fisicità che sconfina molto spesso nella perdizione e nell’annientamento dell’altro. Perché basta poco ad annientare, condannare un uomo. Basta farlo restare a vivere una vita ordinaria in una triste città di provincia…
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