Il cuore e la saggezza. “Niente caffè per Spinoza” di Alice Cappagli
Niente caffè per Spinoza è il romanzo di Alice Cappagli pubblicato da Einaudi nella collana Coralli: Maria Vittoria Baroncini, ai ferri corti con il marito disoccupato, e con una suocera sempre più invadente, è assunta come badante per il vecchio professor Farnesi, ex-insegnante di Filosofia che, data la sua cecità, ha bisogno di qualcuno che legga per lui. Nell’arco di un anno inebriante ma a tratti sottilmente malinconico, la vita di Vittoria cambierà radicalmente sullo sfondo di una Livorno salmastra e luminosa. Di seguito l’intervista all’autrice.
«Pensai che a Livorno l’orizzonte doveva essere infuocato, con il profilo della Gorgona contro le ultime braci del sole»: il romanzo è ambientato a Livorno, s’indugia spesso sulla descrizione dei paesaggi, i volatili coi loro comportamenti presaghi, cui il professore riserva le proprie cure, il cielo di Livorno è l’altra metà del cuore dei personaggi e il salmastro penetra le mura delle case, delle chiese, quasi che il luogo si disponga in una topografia interiore e ideale,«un vero luogo della mente». Che relazione ha lei con i luoghi che ha descritto e come vi sono nati i personaggi di questo romanzo?
I luoghi che ho descritto sono quelli dove sono nata e vissuta per vent’anni. Luoghi che mi sono rimasti dentro come il mare, la luce, la vitalità della gente.
I personaggi sono quello che rimane degli incontri o dei pezzi di vita costruiti insieme: mio padre (il professore) quasi un ritratto fedele estrapolato dai ricordi soprattutto perché era un tipo ironico e acuto. Gli amici erano l’affetto e la solidarietà allo stato puro. Maria Vittoria una ragazza a cui ho scippato l’identità per impadronirmi del suo modo intelligente e pratico di risolvere la quotidianità, di sdrammatizzare. Quello che poi conta è ciò che resta nel setaccio dei vissuti. Più dei vissuti stessi: le impressioni forti, gli insegnamenti, le esperienze, i momenti di contatto con qualcosa di profondamente umano.
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«Stava cercando di far combaciare il presente col passato, non volevo deluderlo»: nell’arco di un anno, questo romanzo racconta i mutamenti non solo del tempo meteorologico, ma anche di quello, per così dire, ontologico. I personaggi appaiono in sordina, come su un palcoscenico con un bagaglio, e esibiscono i loro ricordi, desideri e il modo di vedere il mondo, e poi spariscono, seguono il loro cuore, la mente, il disfacimento del corpo. Tempo inciso sugli oggetti, nelle foto, inesorabile: il tempo non passa invano per la protagonista… e per lei? Cosa ha significato, in termini di cambiamento spirituale, la scrittura di questo romanzo?
Per me scrivere questo romanzo è stato come recuperare un tempo vissuto troppo precipitosamente. Ho ricostruito, valorizzato quello che era finito nel tritacarne della fretta di vivere, di fare. Sono andata via dal mio mondo troppo presto per non sentire di aver lasciato qualcosa in sospeso.
«Forse mi sbagliavo, forse il vuoto non esisteva, o esisteva solo per chi ce l’aveva dentro»:il vuoto è un elemento fondamentale nell’economia della psiche umana di questo romanzo, permette il movimento, gli spostamenti, il mutamento. Il vuoto sugli scaffali della libreria è misterioso, non si capisce dove vadano a finire questi libri e certo non intendo spoilerarlo, la cecità del professore è un vuoto, rispetto alla vastità-luce del cielo livornese, un vuoto che genera una visione ulteriore e che si alimenta d’una progressiva perdita e confusione della memoria. Ci racconta come la memoria le ha permesso di costruire i suoi personaggi?
Non ho usato tanto la memoria quanto le impressioni che le persone hanno lasciato. In realtà un romanzo resta un romanzo proprio perché elabora dei dati sparsi che possono essere riorganizzati con un criterio a volte imprevedibile. Così i personaggi cominciano da soli a muoversi una volta che abbiano acquistato la loro fisionomia. Basta seguirli nel loro itinerario senza forzarli. Il vuoto in realtà non corrisponde a una negatività ma alla fine di una necessità. Solo i saggi non hanno bisogno più di niente.
«Un libro di per sé non è nulla se non trova qualcuno che lo fa vivere nella lettura»: la storia del romanzo è anche una ricognizione nella storia della filosofia, attraverso le citazioni di alcuni filosofi del passato, Epitteto, Pascal, Spinoza, Hegel, Aristotele. Narrazione e citazione si alternano proprio come il ritmo del fascio di luce del faro sulla parete della camera di Elisa, la figlia del professore. Pur non essendoci alcun meccanismo meta-letterario, si parla in continuazione dell’atto della lettura, del fatto che un’opera d’arte viva nel momento in cui lo spettatore la tocca, la legge e in qualche modo l’adotta. La filosofia del passato modula le impressioni del presente: come ha lavorato in questo senso, amalgamando citazione dotta e finzione narrativa?
Questo è stato più semplice di quanto non si immagini. Basta aver masticato bene la Filosofia fino a renderla una parte del proprio modo di essere, un po’ come ha fatto il professore nel romanzo. Il discorso va capovolto: se si parte dal senso della Filosofia come elemento di discernimento della realtà allora poi è semplice ritrovare nella realtà le tracce della Filosofia. I suoi segnali e i suoi richiami sono sparsi in ogni particolare della quotidianità e i primi che se ne sono accorti sono proprio i filosofi fin dall’antichità. Quindi bastava ricorrere subito a loro per trovare in concreto la fonte da cui avevano attinto. In altre parole è stato un circolo: dalla filosofia usciva la narrazione e dalla narrazione la filosofia.
«Era un vero e proprio condensato di perfezioni, stavo passando praticamente dalla penna d’oca alla macchina del tempo»: è la scena in cui la protagonista scrive una mail a Angelo, e per sincerarsi che l’atto avvenga senza intoppi, la indirizza innanzitutto a sé stessa. È assente l’ossessione tecnologica, i cellulari sono antiquati e non navigano in internet, però il mare è il co-protagonista, la penna del professore sui fogli, le pagine, la filigrana, la tradizione, i dialoghi in vernacolo. Spesso c’è una resistenza dei personaggi alla trasformazione, e l’abitudine è un rituale cui è difficile sottrarsi, una liturgia dell’invisibile: come si colloca la sua scrittura nei confronti della tradizione pre-digitale?
Non c’è critica alla contemporaneità del digitale, c’è solo una naturale pigrizia propria di chi non ha mai sentito il bisogno di andare al passo con le novità. Ma il motivo è semplice: ciò che conta ora è ciò che contava dall’eternità: gioia, sofferenza, solitudine o amore o amicizia non hanno bisogno del digitale. La materia umana è universale e fatta di scambi dal vivo cui la tecnologia può consentire un accesso più rapido ma non di sicuro più reale.
Ci parli un po’ della sua vita quotidiana durante la stesura del romanzo:
Lavoravo tantissimo, molte prove, molti spettacoli, molte tournée. Pensavo a scrivere ma avevo poco tempo per farlo così mi riducevo a farlo nei ritagli con il maggior criterio possibile. A volte mi sono portata un tablet in giro con la speranza di andare avanti appena potevo.
Dove scriveva, quando scriveva, cosa faceva tra una pausa dalla scrittura e l’altra?
Ho sempre cercato di scrivere a casa appena potevo, in orari a volte inadatti per essere concentrati, ma almeno mettevo giù un’idea.
In quali luoghi è nato il suo romanzo?
A Milano dove vivo. Era tale la nostalgia della Toscana che ho preso a pensare alla mia città i giorni grigi o freddi o particolarmente carichi di polveri sottili, quasi solo per un desiderio di respirare lo iodio. Pur avendo un’immensa riconoscenza per Milano e la sua capacità di creare opportunità, occasioni, bellezza. D’altra parte sto a Milano da quasi quarant’anni.
L’ha scritto interamente al pc oppure anche a mano?
Ho scritto interamente sul pc, la tecnologia mi piace tantissimo quando facilita la vita. E il computer in questo è insuperabile.
Durante la stesura del romanzo le capitava di passeggiare in bici, in auto, a piedi e osservare alberi, scrutare edifici, finestre, affondare lo sguardo nel cielo, seguire le onde del suono e dell’acqua e trovare un’ispirazione per il suo romanzo?
No. L’ispirazione è una cosa che viene da dentro, mi pare. Come un’esigenza indipendente da quello che si vede o si sente, però quello che aiuta a portare avanti un’idea è il metodo, la ricerca di un sistema semplice per dire una cosa complessa. L’osservazione della natura etc aiuta a rilassare il cervello e magari in quel momento emerge qualcosa. O comunque è così per me che sono musicista e abituata a fare arte a comando.
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Fumava o beveva durante la stesura del suo romanzo?
Bevo molta acqua e basta. Non fumo.
Scriveva dopo cena, prima di pranzo, quando?
Quando potevo, senza orari fissi.
Come potrebbe definire la scrittura di questo romanzo: di spostamento, di stasi, di spazio, del corpo, della mente, come?
Questo è un romanzo in cui la mente spazia e vuole invitare anche chi lo legge a spaziare con la mente.
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Per la prima foto, copyright: Dmitry Ratushny su Unsplash.
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