Il corpo di Cristo in “Sete” di Amélie Nothomb
L’esistenza di Gesù Cristo, oltre che di esegesi teologiche, letterarie e filosofiche, è stata da sempre oggetto di narrazione tanto nei quattro Vangeli quanto in diverse altre testimonianze considerate a oggi apocrife o in opere di fiction. Se c’è un punto di vista che raramente si è scelto di adottare per raccontarla, però, è proprio quello dello stesso Figlio di Dio. Ad abbracciare tale prospettiva, singolare e complessa da gestire fin dalle sue premesse, è stata di recente Amélie Nothomb, che è tornata nelle librerie italiane nel febbraio 2020 con il romanzo Sete, tradotto da Isabella Mattazzi per Voland.
Nella fattispecie, l’autrice belga non ha optato né per una riscrittura integrale della versione considerata ufficiale, né per una rivisitazione in chiave critica: la sua impresa si colloca, piuttosto, a una via di mezzo tra la dimensione sensoriale del Cristo e quella metafisica, tra la riflessione interiore e il rapporto con il corpo. È così che il periodo della nascita e dell’infanzia di Gesù sono assenti, mentre particolare attenzione è dedicata alla sua vita adulta e alla sua relazione con la Vergine, con Maddalena, con Giuda e con Dio, a cominciare dal giorno del processo davanti a Pilato per poi andare a ritroso e ritornare infine al momento della crocifissione.
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In questo lungo monologo interiore, quattro sono i fili conduttori più interessanti da evidenziare, identificabili rispettivamente nel rapporto con il Padre, con l’amore, con l’errore, e con la sete. Di Dio il Cristo di Nothomb sostiene:
«Che un essere disincarnato abbia avuto l’idea di inventare il corpo è un colpo di genio senza pari. E come poteva fare il creatore per non venire sopraffatto dalla propria creatura di cui non comprendeva fino in fondo la portata?» (p. 16).
La risposta risiede nella natura stessa del Figlio, così inebriato dalla sua capacità di vivere all’interno di un corpo da commuoversi o soffrire per il più piccolo evento quotidiano – a differenza, forse, di molti esseri umani assuefatti all’intensità delle percezioni sensoriali.
Sull’amore, invece, fin dalle prime pagine del volume emerge una constatazione sconcertante: nel momento in cui a Cristo è stata associata la capacità di compiere miracoli, i sentimenti provati dalla gente nei suoi confronti non erano più disinteressati. Ci si aspettava che al suo passaggio guarisse la gente malata, resuscitasse quella morta, partorisse quella sterile. Sempre meno sembrava contare in sé il messaggio di redenzione e perdono diffuso sulla Terra, così come la catena di conseguenze collegate in maniera imprevedibile alla grazia divina richiesta di volta in volta. Poche erano, quindi, le relazioni destinate a non vacillare in nome di un opportunismo che sarebbe riemerso in tutta la sua amarezza durante l’udienza di fronte ai Romani.
Non a caso, in riferimento alla sua condanna a morte, il protagonista afferma:
«Questa crocifissione è un errore. Il progetto di mio padre doveva mostrare fin dove ci si può spingere per amore. Se questa idea fosse solo stupida, potrebbe limitarsi a rimanere inutile. E invece no, è anche tremendamente nociva. Una sfilza di uomini sceglierà il martirio a causa del mio esempio imbecille. E fosse solo questo! Perfino coloro che avranno la saggezza di optare per una vita semplice ne saranno contagiati. Perché ciò che mio padre mi infligge testimonia un disprezzo così profondo del corpo che non può non lasciare tracce» (p. 67).
Nelle righe appena citate risiede il passaggio logico che dà il titolo all’opera e che chiarisce la posizione della scrittrice nei confronti della vicenda narrata. Il suo è, infatti, un tributo al corpo, un’ode all’esistenza terrena di Cristo, una celebrazione della carne secondo un’ottica forse desueta nella tradizione cattolica. È attraverso i sensi che nasce e si condivide l’amore, ed è grazie alla sete che il desiderio cresce e diventa dolcissimo da soddisfare, sia a livello letterale che su un piano metaforico. Pertanto, tra le pagine del conturbante romanzo firmato Nothomb, a spiccare con originale e profonda tridimensionalità è un uomo a tutti gli effetti, non posto al di sopra del mondo, bensì incastonato (e quasi incastrato) al suo interno fino al giorno della sua morte.
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Non c’è da stupirsi, allora, che l’opera si concluda prima del miracolo della resurrezione, a partire dal quale il corpo sarebbe il grande assente della storia: l’esperienza del Cristo è esemplare e straordinaria finché è comune alla nostra, pur nella sua imperfezione e al di sopra delle sue peggiori pulsioni, e finché la sua fede è sorretta dall’amore, più che dall’intervento di un deus ex machina. È questo il messaggio rivoluzionario e per certi versi provocatorio dell’autrice, che ancora una volta si conferma come una delle penne più brillanti del panorama letterario europeo.
Per la prima foto, copyright: Christoph Schmid su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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