Il corpo coraggioso delle donne. “Il primo dolore” di Melissa Panarello
Il rapporto con chi ci ha messo al mondo, con la madre, è uno degli elementi fondanti della nostra identità. È la madre che ci porta con sé per nove mesi, amorevolmente custoditi nella sua pancia, fino a quando non è il momento di venire al mondo, di uscire alla luce e quegli attimi non possono che essere traumatici. Il pianto del bambino appena nato è la fine di una specie di paradiso terrestre. Da quel momento i piccoli dovranno trovare posto nel mondo e continuare a rapportarsi con la donna che gli ha dato la vita, con quella figura che in qualche modo li ha illusi che là fuori ci fosse un luogo ospitale pronto ad accoglierli. Roland Barthes, piegato dal dolore, scrisse un diario sulla perdita atroce della madre: «Se fossi sicuro io, di ritrovare Mamma, morirei immediatamente». A questo legame primordiale della vita è dedicato Il primo dolore, il romanzo di Melissa Panarello (il primo senza la firma Melissa P) edito da La Nave di Teseo. Un romanzo che parla di fantasmi, di luoghi bui e della luce che può nascere soltanto se riusciamo a comprendere, ad avere compassione del dolore dell’altro. Soltanto questa compassione, questa mutua solidarietà nella sofferenza, può permetterci di andare avanti.
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Che la relazione con i figli, soprattutto nella nostra società iperconnessa, veloce e competitiva, sia diventata più problematica (ma forse lo è sempre stata, solo che le donne molto spesso tenevano custodita dentro di loro questa sofferenza) lo dimostra per esempio il libro di Rachel Cusk, Puoi dire addio al sonno, che quasi vent’anni fa scriveva così:
«Per essere una madre devo ignorare le chiamate, lasciare il lavoro a metà, non rispettare gli impegni presi. Per essere me stessa devo lasciar piangere mia figlia, anticipare le sue poppate, abbandonarla per uscire la sera, dimenticarla per pensare ad altre cose. Avere successo nell’essere l’una significa fallire nell’essere altra.»
Il primo dolore racconta di due donne che stanno per portare a termine la loro prima gravidanza, in due epoche diverse. La storia di oggi ha per protagonista Rosa, una donna di quarant’anni che lavora come giornalista per una rivista, un settimanale. In redazione un giorno incontra Andrea, un ragazzo che fa il musicista. Per lei, alle battute finali di una stanca relazione con un uomo più grande, è amore a prima vista. Pensava di essere oramai immunizzata dal dolore della gravidanza, ma sbagliava. La storia s’incrocia con quella dell’allora giovanissima Agata che diventerà la madre di Rosa e che sta per partorire il suo primo figlio; lei non ama il marito Saverio con cui aveva fatto la classica fuitina. Il suo destino di moglie e madre era segnato agli occhi della famiglia. Saverio è un uomo timido, votato molto spesso al silenzio e alla scontrosità. Quasi una condanna per la giovane Agata che portava invece con sé una sorta di ribellione, una visione indisciplinata della vita.
Rosa da tempo non ha più rapporti con la madre che l’ha sempre disprezzata, l’ha sempre fatta sentire in colpa. Agata diceva di aver fatto già abbastanza per lei, dandole la vita, facendole consumare tutto il latte dal seno. Mi hai prosciugata, le ripeteva quand’era ancora bambina con la voce cattiva e aspra; la chiamava addirittura “sanguisuga”. Il padre un giorno le confessò che quelle parole erano delle bugie. Agata non l’aveva mai allattata al seno, aveva sempre utilizzato il latte artificiale (nel prosieguo del libro si scoprirà qual è il segreto che divide le due donne). Rosa, di notte, correva molto spesso verso la stanza dei genitori perché aveva bisogno della loro presenza, del contatto dei loro corpi. Una sera andò a sbattere contro la porta chiusa della loro stanza, finendo col diventare cieca da un occhio. Una metafora che rappresenta bene l’incompletezza, l’imperfezione con cui dobbiamo combattere, venire a patti per tutta la vita. Rosa sarà sostenuta soprattutto dai nonni, non potendo contare sul padre Saverio che muore quando lei è ancora piccola. Per completare gli studi all’università deciderà di partire, di fuggire da quella prigione di dolore e perfidia. La madre non muoverà un muscolo per salutarla, per abbracciarla, per farle coraggio per l’inizio di quel nuovo capitolo della sua vita. Rimane sdraiata sul divano, scostante, a vedere la televisione, muovendo la mano come se fosse alle prese con un insetto molesto.
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La gravidanza di Rosa è quindi una lotta corpo a corpo con i ricordi della sua infanzia, con la solitudine patita in quegli anni, perché la memoria è una guardiana impietosa che non fa sconti. Agata, oramai malata, verrà poi a veder partorire la figlia; sarà Andrea a pagarle il viaggio aereo. Proprio nei momenti prossimi al parto il romanzo trova un suono polifonico con le voci dei protagonisti (Rosa, Andrea, Agata) che si susseguono e che mostrano come soltanto la partecipazione al dolore proprio e altrui, soltanto la pietas e il perdono, soltanto il contatto dei corpi nel sostegno reciproco possano aiutare ad attraversare il buio e a vedere finalmente la luce, la luce di una nuova, misteriosa e al tempo stesso magnifica vita. Melissa Panarello utilizza una lingua che evidenzia proprio l’importanza della fisicità, della corporeità nelle relazioni umane. Come spiega l’ostetrica a Rosa: ۮè il tuo corpo che decide, nessun altro. Nemmeno la tua testa decide. Lascia fare tutto al tuo corpo.» Una fisicità che molto spesso imbarazza, infastidisce gli uomini:
«Il mito della donna eterea è, appunto, un mito, pensato e scritto sicuramente da un uomo: nulla è meno etereo di una donna che si sporca di sangue tutti i mesi, nulla più di lei è attaccato alla terra.»
Soltanto questo attaccamento alla terra permette alle donne di affrontare con coraggio i dolori laceranti di un travaglio. Noi uomini non possiamo far altro che contemplare e ammirare la bellezza e il fascino di questo coraggio.
Per la prima foto, copyright: Alicia Petresc su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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