Il coraggio delle donne raccontato da Dacia Maraini e Chiara Valentini
«Woman’s right are human rights»: i diritti delle donne sono diritti umani. Ci sono voluti secoli per udire pronunciare queste parole, nel 1995, durante la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sulle donne, tenutasi a Pechino. Parole che possono apparire scontate se non si getta uno sguardo alle lotte compiute dalle donne e pagate con il sangue, per riuscire ad affermare i propri diritti di esseri umani, per troppo lungo tempo misconosciuti. Partendo dai primordi, con Eva storicamente sottomessa ad Adamo, il maschio, l’uomo, fino a giungere a oggi, epoca in cui se l’uguaglianza viene formalmente proclamata, nella sostanza la strada da compiere è ancora lunga. Le discriminazioni continuano infatti a essere molte e impongono di non abbassare la guardia per tutelare conquiste che purtroppo non possono ancora essere date per definitive. Basti pensare all’Oriente, ove la situazione è fortemente arretrata. Qui alcuni paesi sono a regime totalitario e alle donne è vietato lavorare, passeggiare per strada da sole, devono indossare il burka, non possono opporsi alla poligamia del marito, evitare la mutilazione genitale o il matrimonio, anche se minorenni, con mariti imposti dalle famiglie. Lo stato di parità è lungi dall’essere ottenuto. Sono donne costrette quasi a uno stato di schiavitù, ben coscienti di ciò che subiscono, eppure ignare dei mezzi attuabili per uscire da quell’inferno o più semplicemente dominate dal sentimento della paura che impedisce loro di ribellarsi.
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Il coraggio delle donne (Edizioni Il Mulino) è un saggio scritto da Dacia Maraini e Chiara Valentini, due intellettuali con alle spalle una vita d’impegno e militanza nella questione femminile. Il libro si divide in due parti. Nella prima intitolata Una lunga rivoluzione le due autrici ripercorrono il lungo percorso che ha portato alla rivoluzione, mentre nella seconda parte Donne coraggiose ricordano alcune donne che hanno fatto la storia, ritratti esemplari a riprova che di coraggio le donne hanno sempre dimostrato di averne parecchio.
«Ho ancora negli occhi le grandi manifestazioni per abolire leggi vergognose come quella sul delitto d’onore, per cambiare il diritto di famiglia, perché le donne potessero decidere del proprio corpo. E poi le discussioni infinite per un nuovo punto di vista sui rapporti tra i sessi».
È di recente introduzione nel vocabolario il termine femminicidio a indicare la violenza arrecata contro quello che viene definito il sesso debole. Sempre più spesso sentiamo dire «L’ho uccisa perché l’amavo troppo», come se amare troppo qualcuno implicasse fargli del male. Una chiara bugia che fa comodo dichiarare per giustificare moralmente un assassinio. La donna è da sempre vista come una proprietà. Per quel tipo di maschio che identifica la propria virilità con il possesso, l’idea di perdere quella proprietà scatena una crisi talmente forte da indurlo al delitto. «La amo e perciò è mia». Possesso e dominio sono due parole essenziali per capire da dove provengano tale brutalità e violenza, dato che la cultura maschile è basata sul diritto al possesso e sul dominio del corpo femminile. Si pensi pure ai matrimoni riparatori che fino a qualche decennio fa venivano celebrati senza il consenso della donna/vittima. Franca Viola è stata colei che, senza volerlo, ha compiuto un atto storico che ha cambiato il punto di vista di un’intera generazione. Ha fatto capire che si poteva dire no, opporsi al matrimonio con l’uomo che l’aveva rapita e violentata brutalmente. Se l’articolo 544 stabiliva la non punibilità del colpevole di violenza carnale se avesse sposato la sua vittima, anche se minorenne, per lui per evitare la prigione, per lei perché avendo perso l’onore sarebbe stata costretta a restare nubile a vita, la Viola, con il proprio esempio, è diventata simbolo della ribellione a costumi incivili.
Un altro grande contributo alla rivoluzione è stato dato dal Movimento femminista. Esso ha reso popolare il sentimento dell’ingiustizia storica subita e ha proposto un mondo diverso, nel quale le donne devono essere riconosciute come persone pensanti, con competenze e abilità proprie, e non creature «incapaci di pensare con la propria testa». Le suffragette hanno rivendicato la razionalità, la responsabilità e l’indipendenza delle donne e soprattutto il diritto al voto. In Italia le donne hanno potuto votaresolamente il 2 giugno 1946, giorno in cui i cittadini e le cittadine sono stati chiamati a scegliere tra Monarchia o Repubblica, nonché i membri dell’Assemblea Costituente, di cui su 556 membri solo 21 erano donne.
Liberarsi per le donne non vuol dire accettare la stessa vita condotta dall’uomo, ma ribellarsi a regole e tabù imposti dalle società patriarcali: dalla proibizione dell’aborto alla prova della verginità durante la prima notte di nozze alla penalizzazione dell’adulterio. Liberarsi significa poter esprimere il senso della propria esistenza, libere da condizionamenti esterni. «È l’idea stessa di una superiorità maschile che va portata alla luce e combattuta».
Dopo aver discusso della teoria, il quesito che le due autrici si pongono è «Come hanno vissuto le donne questo lungo stato di repressione ed esclusione? Possiamo fare degli esempi?» Approfondiscono quindi le storie di alcune donne che con il proprio coraggio sono state da esempio per le altre. La Maraini ci racconta di tre donne dell’antichità, mentre la Valentini di tre donne dei tempi moderni. Da sempre la conoscenza e lo studio sono stati considerati pericolosi per le donne. La caccia alle streghe ne è un esempio. Guaritrici, ebaniste, levatrici sono state facile bersaglio da mettere al rogo, un olocausto misconosciuto, la storia di una vergogna. Ma prima ancora si pensi a Ipazia d’Alessandria, straordinaria filosofa greca brutalmente assassinata dai fanatici cristiani per la propria sapienza, o a Vibia Perpetua di Cartagine, giovane cristiana cartaginese che subì il martirio sotto l’imperatore Settimo Severo, o a Costanza di Altavilla, imperatrice del Sacro Romano Impero e regina di Sicilia, che dovette partorire in una tenda montata nella piazza di Jesi per mettere a tacere le dicerie che la volevano non fertile perché quarantenne. La Valentini ci ricorda inoltre Olympia de Gouges, attivista francese, i cui scritti femministi e abolizionisti ebbero grande risonanza, ma che finì ghigliottinata nel 1793; Cristina Trivulzio di Belgiojoso, giornalista e scrittrice italiana che partecipò attivamente al Risorgimento e fu editrice di diversi giornali rivoluzionari, e Renata Viganò, scrittrice, poetessa e partigiana italiana.
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Tante le donne coraggiose che si potrebbero ancora citare, da Margherita Parete che sfidò la Chiesa criticandone gli scritti misogini e finì bruciata viva nel 1310, Giovanna d’Arco, anche lei bruciata al rogo nonostante le grandi gesta compiute, Isabella Marra che nel 1545 fu uccisa dai fratelli perché corrispondeva di letteratura con un poeta. Ma di quante donne si è invece seppellita la memoria insieme ai corpi? Oggi l’Europa si trova con tre donne al comando: Angela Merkel alla guida della Germania, Ursula von der Leyen alla testa della Commissione Europea e Christine Lagarde a capo della Banca Centrale, ma la strada da percorrere per portare a termine la rivoluzione intrapresa tanto tempo fa è ancora molto lunga.
Per la prima foto, copyright: Josh Howard su Unsplash.
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