Il coraggio del desiderio. “L’imitazion del vero” di Ezio Sinigaglia
L’imitazion del vero, di Ezio Sinigaglia, per TerraRossa edizioni, collana “Sperimentali”, segnalato al Premio Strega 2020 e al Premio Comisso 2020, è una novella di cento e uno pagine il cui protagonista assoluto è il desiderio erotico: Mastro Landone, artigiano e inventore di Lopezia, l’adolescente Nerino, il giovane facchino Petruzzo, ne sono le pedine manovrate sulla scacchiera della sessualità repressa e soddisfatta; e di una macchina del piacere – fulcro e motore materiale di tutta la vicenda. Lo scandalo non è la disobbedienza alla praeceptio morum, quanto la prosa medesima, d’un evo stato al quale Sinigaglia attinge non per ostentato studio filologico, ma per obbedienza a quel principio della diversificazione che è cifra d’ogni alta scrittura desiderante: l’autore mette in scena una sintassi del desiderio trasgressiva e ironica, ricca di participi assoluti, metafore inedite, nomi parlanti, locuzioni latine. Una trama d’inganni e finzioni, tenerezza e umanità, danza sul palcoscenico d’una lingua eccessiva che svela, dietro l’osceno e fragile godimento dei corpi, la struggente maraviglia dell’animo umano: quell’amore di tanti nomi… pur tuttavia indicibile.
«Ma a cagion del colore che ho, tutti mi chiamano come m’han sempre chiamato: Nerino.» Risponde Antonio, Nerino, appunto, il fanciullo che si presenta alla bottega di Mastro Landone (egli si chiama in realtà Orlando, ma all’aspetto fisico da gigante e al grandissimo ingegno dell’artefice, si confà più il significante Landone). Poi c’è Petruzzo, le cui movenze e fattezze di ragazzo di strada fanno del suo un nome eloquente. Dunque ecco una prima lampante caratteristica della sua prosa: i nomi parlanti. Ci racconta la genesi dei suoi personaggi?
In generale, quel che mi piace dei miei personaggi non è la loro nascita, ma il modo in cui crescono. Da questo punto di vista il caso dell’Imitazion del vero è forse esemplare. Le prime idee ad affiorare sono state quella dell’ambientazione in un remoto passato e quella del linguaggio che naturalmente ne derivava. Anche il nome della città immaginaria, Lopezia, venne a galla in questa primissima fase. Poi cominciai a lavorare sull’idea dell’inganno come motore di una storia d’amore molto sui generis. A questo punto dovettero per forza nascere anche i due personaggi principali, ma come due figurine senza spessore, provviste soltanto di quella che potremmo chiamare una “scheda identificativa” per ciascuno. P1: falegname, inventore geniale, gigante biondo, amator di ragazzi. P2: apprendista, fanciullo nero, bellissimo, intelligente e ingenuo a un tempo. Insomma, proprio due personaggi come si insegna a costruirne nelle migliori scuole di scrittura: due sagome pressoché senza volto e soprattutto rigorosamente bidimensionali, come i bersagli del tiro a segno (non a caso i romanzi senza armi da fuoco sono oggi rarissimi). È stato più tardi, nella fase della stesura, che mi sono allontanato da questi buoni precetti, come è purtroppo mio costume. Mastro Landone e Nerino hanno incominciato a prendere volume, a “metter su peso” fin dal primo colloquio a tu per tu, dapprima ritti sulla soglia della bottega, poi assisi accanto al banco. Da quel momento scrivere la storia è diventato più facile: i personaggi, i caratteri per dirla con espressione anglosassone, determinavano le azioni. Anche se, lo confesso, la trovata finale di Mastro Landone e la reazione disorientata di Nerino mi sono rimaste abbastanza imprevedibili fino all’ultimo, e mi sono riuscite quasi un po’ sorprendenti, come i comportamenti delle creature del dottor Frankenstein.
Quanto al fatto che i nomi dei miei personaggi siano spesso portatori di un significato nascosto, c’è sicuramente del vero. Ma in questa novella i nomi dei due attori principali sono parlanti di per sé, senza, per così dire, la mia complicità: Nerino è un soprannome che il ragazzo si porta dietro – si direbbe – fin dalla nascita, per via del colore particolarmente scuro della pelle, Landone è un Orlando prima abbreviato in Lando forse per comodità e poi accresciuto in Landone per la sua statura di gigante (e probabilmente anche per la grandezza del suo ingegno, come lei suggerisce). Nomi così apertamente parlanti non possono parlar d’altro che di quello specifico tratto che descrivono. È improbabile che nascondano significati segreti. Per fare un esempio, sarebbe del tutto vano interrogarsi sul nome del Nibbio: è un soprannome, non un nome, e come tale definisce la sua natura di rapace, il rapace che rapisce (Lucia). Ben diverso è ipotizzare che vi sia del deliberato sarcasmo nel nome di don Abbondio, un personaggio che non abbonda in nulla se non in pochezza. Quanto a Petruzzo, ripensandoci, trovo più parlante il suo mestiere di facchino che non il suo nome: perché questo povero ragazzo del popolo, vanaglorioso, ottuso, acceso di una inconcludente e turbolenta libidine, porta davvero ai due personaggi principali e alla novella stessa, senza averne coscienza, un gran carico di doni preziosi. È il mondo esterno, il fuori che, entrando nel gioco della coppia, ne allarga gli sguardi e ne muta la sorte. Un deus ex machina, o piuttosto in machina, stando all’intreccio…
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«Or tu devi, Nerino mio, solennissimamente giurarmi che giammai non proverai a calarti dentro codesta botte del vizio e del peccato». La costruzione della botte pare una macchina virtuale dei nostri giorni: con un sottile inganno, Landone, proibendone l’utilizzo, spinge Nerino a immergersi nei piaceri della botte. Nel suo lavoro tutto sembra così esplicito e diretto eppure è molto metaforico, per esempio il confondere un godimento artificiale per quello reale. Mi corregga se sbaglio, però mi pare che queste pagine possano avere un riferimento alla sessualità odierna, spesso priva di corpi e di desiderio. Come è nata l’idea della botte, artificio movens di tutta la vicenda?
L’imitazion del verofu il primo libro che portai a termine dopo Il pantarèi, alla fine degli anni Ottanta. È perciò da escludere che la vicenda alludesse a una sessualità virtuale che non esisteva ancora. Forse ne avvertivo i presagi, questo non mi sento di escluderlo. Ma l’invenzione – se così posso esprimermi – della finta invenzione di Mastro Landone era ispirata piuttosto dal persistere a quei tempi del fortissimo stigma etico-sociale che pesava su ogni forma di omoerotismo. Da questo punto di vista le cose sono cambiate, in trent’anni o poco più, in modo davvero radicale. Circa due mesi fa, appena prima dell’esplosione della pandemia, sono stato a Napoli per presentare Il pantarèi, il cui protagonista è apertamente e attivamente bisessuale, al concorso per le scuole superiori “La pagina che non c’era”. Portare un libro del genere nelle scuole, parlarne con gli studenti, invitarli a leggerlo e a farne materia di gioco letterario non sarebbe stato, trent’anni fa, neppure lontanamente immaginabile. La “crudele legge” del Principato di Lopezia allude dunque al divieto che, pur in assenza di una vera e propria legge, gravava di fatto sui desideri di chi era ragazzo a quell’epoca, e aveva gravato ancor più pesantemente sui nostri desideri di ragazzi degli anni Sessanta, costringendoci ad appagarli in segreto, o a non appagarli per nulla. L’obbligo della clandestinità, devo ammetterlo, era un fuoco di cui in seguito ho molto sentito la mancanza. E così accade anche a Mastro Landone e a Nerino: il divieto viene aggirato nell’oscurità e nella finzione, ma non per questo il fuoco dell’erotismo si dimostra meno bruciante. Anzi, il desiderio solo in parte appagato (la parte di sopra dell’uno, la parte di sotto dell’altro) accende i corpi di una passione sempre più insaziabile. La botte è il nascondiglio ideale per questo erotismo proibito. È un oggetto elegante, grazioso, che rende verosimile l’incantamento di cui resta vittima la parte più fanciulla del fanciullo Nerino, attratto alla “botticella” dalla sua apparente natura di innocuo giocattolo. E poi questa botticella non è una botte, “ma la metà di una botte che si tagliasse nel mezzo della pancia”: quindi è anche una metafora perfetta del loro amore dimidiato. Una gran bella invenzione, quella di Mastro Landone. Da dove mi sarà mai venuta questa idea? Chissà. Le idee buone, quelle veramente importanti e creative – l’ho già detto tante volte – non vengono prima: vengono mentre si scrive. Forse perché lo scrittore è tale solo quando scrive; non prima e non dopo. Mentre si scrive, mentre si lavora su un buon progetto, di idee ne vengono tantissime, perché il cervello è in ebollizione perpetua. E ci si può ben immaginare quante idee possono essermi venute in quella fase inziale della stesura dell’Imitazion del vero, quando dovevo riuscire a entrare nel cervello in ebollizione di un inventore! Il mio solo merito è stato quello di saper discernere, fra le mille idee di Mastro Landone, quella più luminosa.
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«Dove prima era un nero splendore, che sopra il nero del buio sol per maggiore lucentezza appariva, siccom’il verde di tenera foglia sopra il verde di foglia più antica, or si faceva ad un tratto un bianco baglior ch’accecava» è un passo, non l’unico, dei molti, che mette in scena una sintassi ricca di assonanze, rime interne e ritmo, inversioni e metafore inedite, e che tradisce bene l’inquietudine di Landone, la confusione dell’innamorato, il disordine delle sensazioni: ci racconta come mai ha scelto questa prosa e se c’è stato uno studio, per così dire filologico, a monte? O un autore, un’opera di riferimento?
Tutto nasce dal Pantarèi. Può sembrare paradossale, ma è proprio così. Negli anni successivi alla stesura del Pantarèi la mia attività di scrittore fu paralizzata da due cause diverse ma convergenti. La prima era rappresentata dall’insuccesso del romanzo, un insuccesso molto esplicito, sia nella lunga fase della sua mancata pubblicazione sia in quella, assai più breve, della sua pubblicazione passata sotto silenzio. Questo era un elemento scoraggiante, che mi avvertiva con estrema chiarezza di quanto poco attuale fosse, negli anni Ottanta del riflusso e dell’edonismo più sguaiato, la mia idea ancora forte di letteratura. La seconda causa stava nella natura del Pantarèi, un’opera che, parlando principalmente del romanzo del Novecento, cantava insieme l’epinicio e l’epicedio del romanzo stesso come genere letterario. Che cosa scrivere dopo? Iniziai e abbandonai l’uno dopo l’altro vari progetti, tutti caratterizzati da uno sperimentalismo che pretendeva di andare ben oltre quello del mio romanzo d’esordio. Uno di questi era un progetto piuttosto buono dal punto di vista strutturale e letterario. Ma, dopo aver messo da parte per un po’ il manoscritto a causa di una piccola serie di drammi privati, restai sbalordito, quando lo rilessi per così dire a freddo, nel trovarlo noioso in modo quasi insopportabile. Ci tirai una croce sopra: se c’è un’ipotesi che non posso nemmeno prendere in considerazione, è quella di annoiare il lettore. Impegnarlo sì, metterlo in difficoltà sì, scandalizzarlo sì, tenerlo sveglio anche, dirgli cose sgradevoli occasionalmente pure, ma annoiarlo mai. Allora mi venne un’idea che si può sintetizzare così: “tornare alle origini”. È necessario farlo, presto o tardi, quando si pretende di scrivere qualcosa di nuovo. E poi io – che fortuna sfacciata! – sono uno scrittore italiano: le origini per noi sono assai più interessanti degli approdi. Avevo a disposizione la tradizione brillantissima della novella italiana, dal Decameron in poi. Potevo lavorare su quel punto di partenza e costruirmi, sopra e intorno alla lingua del Boccaccio e dei boccaccisti del Cinquecento, un italiano clandestinamente mio e solo mio. Un italiano che fingesse di essere antico grazie ad alcuni stratagemmi ben equilibrati (la costruzione sintattica latineggiante, qualche isolato relitto di un lessico arcaico, una sostanziale mancanza di coerenza nella consecutio delle ipotetiche, un parlato privo di qualunque tentazione naturalistica, e via dicendo) ma la cui antichità fosse accuratamente mitigata e rielaborata per ottenere un impasto linguistico ben comprensibile al lettore e molto, molto personale. Questo soprattutto era importante: che fosse una lingua viva, non l’imitazione di una lingua morta, e che fosse una lingua mia, non l’imitazione di una lingua d’altri. Per la credibilità dell’operazione antiquaria mi sono affidato all’orecchio, senza nessuna preoccupazione da filologo o da storico della lingua. A compensazione del mio disastroso orecchio musicale, ho avuto in sorte una notevole sensibilità naturale per il ritmo della scrittura, per la metrica e la prosodia, per i giochi di allitterazione e di assonanza, e così via. Ho sfruttato questo dono, niente di più. Naturalmente, quando si porta a termine un progetto bizzarro come questo, si ottiene una prima stesura piena di difetti, una seconda così così, una terza accettabile, e non la si finirebbe mai di modificare, tagliare, precisare, correggere. Sono sicuro che i lettori più attenti ed esperti troveranno parecchie imperfezioni anche in questa versione “definitiva”. Amen: siamo tutti peccatori. L’importante è porsela come mèta, la perfezione (o la santità): raggiungerla è impossibile.
«Uscì tosto Mastro Landone dalla bottega in sulla piazza di San Giovanni nel momento appunto che l’ora prima com’un segnal sonava». C’è l’architettura, la taverna, le strade di Lopezia, il campo sulla via di San Luca. I luoghi, i loro nomi, insomma, come la lingua, sono la cifra di un’epoca altra e anche della fusione-contrasto tra l’uomo, come essere culturale e urbano, e la natura, come ambiente del desiderio e della legge. Che ci può dire dell’ambientazione? E di questo continuo opporsi di legge e desiderio?
Per l’ambientazione potrei sostanzialmente ripetere quanto ho appena detto a proposito della lingua. Né l’una né l’altra puntano a una datazione precisa ed entrambe sfruttano pochi, solidi elementi per creare una suggestione. Nel caso dell’ambientazione questi elementi sono forse ancora più radi e isolati di quelli lessicali e sintattici che mi sono serviti ad “anticare” il mio italiano: Lopezia “coi suoi carri e coi suoi frastuoni”; la bottega e l’officina, comunicanti ma concettualmente separate; la cantina con la sua peccaminosa scala a chiocciola; il Palazzo principesco, spesso evocato e mai vissuto nel presente narrativo; la piazza di San Giovanni e il vicolo su cui affaccia l’usciolo fatale; San Luca e la strada fra i campi; l’osteria. Bastavano questi pochi luoghi e oggetti, e le fiamme delle candele come sola luce artificiale, e i mille e mille passi di Nerino come solo mezzo di locomozione, a fare di Lopezia una città del passato. Che gli elementi per così dire d’arredo fossero così rari e scarni è stato anzi per la mia costruzione narrativa un vantaggio prezioso, perché la loro ripetizione continua serviva ottimamente a esasperare il senso di soffocamento generato dall’ossessivo girare, “siccome intorno al sole i pianeti”, delle vite “di Mastro Landone e di Nerino intorno al sol della botte”. Così, quando su queste due vite sigillate nelle loro minuscole orbite irrompe il mondo esterno, rappresentato da un inconsapevole sempliciotto qual è Petruzzo, l’effetto di aerazione è turbinoso e anche i risvolti comici dell’episodio ne riescono provvidenzialmente accentuati.
In questo passato imprecisato ma remoto ha ancora un suo posto centrale la divinità. Mastro Landone è un uomo, come si suol dire, timorato di Dio, ma è anche un uomo d’ingegno e quindi dubita in più di un’occasione che Dio possa stare dalla parte della legge degli uomini e non da quella della natura. Quindi direi che nella forte opposizione, che lei giustamente sottolinea, fra desiderio e legge, e che a tratti è l’anima stessa del racconto, sono desiderio e natura a stare dalla stessa parte, non natura e legge. E forse è proprio grazie a questa convinzione di essere alleato con la natura, e con Dio, che Mastro Landone può costruire la sua salvezza, che è anche la salvezza di Nerino. Questa chiave di lettura, del resto, è offerta al lettore fin dalle primissime pagine, là dove si parla del “Signore Iddio, più misericordioso assai degli uomini che d’interpretarne i disegni si credono”. La natura, in ultima analisi, è meno matrigna della legge degli uomini.
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«… essendosi Egli della varietà delle forme il primo artefice ed il solo custode;» lei, come autore, avendo io letto Eclissi, o Pantarei, è questo: la varietà non omologata e non omologante degli stili: percorso difficilissimo in questa attuale ricerca di conformismo letterario. Cosa si sente di dire a chi volesse iniziare, o continuare, a scrivere senza omologarsi alla legge commerciale dell’editoria consumistica ma aspirasse a coniugare desiderio e letteratura apprezzabile magari solo col tempo?
Mah, ammettendo che dopo questa crisi sconvolgente che stiamo vivendo le cose possano ritornare ad essere com’erano – diciamo – alla fine del 2019 (il che non è affatto scontato), quel che ho da dire è molto semplice: se chi scrive è mosso da una necessità e sostenuto da un autentico talento, che cosa può mai importargliene delle tendenze dell’editoria? Scriverà quel che Amore, cioè il suo talento, gli “ditta dentro”, e affronterà le relative conseguenze, le buone (gli sprazzi di felicità) e le cattive (gli anni di frustrazioni). Se invece chi scrive è in cerca di successo e fortuna, ci sono tante strade per ottenerli: non c’è alcun bisogno di aggiungere cattivi romanzi alle migliaia di quelli già esistenti.
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Per la prima foto, copyright: Jan Tinneberg su Unsplash.
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