“Il coltello che ricorda” di Hilde Domin, quando scrivere è sopravvivere
Il coltello che ricorda di Hilde Domin, pubblicato lo scorso 4 febbraio da Del Vecchio Editore, terzo volume di una serie di lavori dedicati alla grande poetessa tedesca,ha il pregio di unire ai versi un insieme di testi autobiografici, teorici e lirici che rispecchiano il pensiero creativo e critico della Domin.
«Scrivo perché è la mia seconda vita, perché la Poesia è libertà e momento di verità». Lo ripete con voce salda Hilde Domin, in un’intervista degli anni ’90 che si trova ancora su youtube, in cui la scrittrice ci appare come una dolce signora agée, capelli e occhi chiari, camicetta gialla e pullover scuro. Se ci fosse capitato di incontrarla per strada, difficilmente l’avremmo notata, a dimostrazione che, tuttora, contenitore e contenuto son cose assai differenti.
Hilde Domin è una straordinaria voce cosmopolita della poesia del Novecento. Tedesca, ebrea, ha dovuto scegliere la via dell’esilio volontario per allontanarsi dal regime nazista, vagabondando, a partire dagli anni ’30, di Paese in Paese. Dalla Svizzera all’Italia e a Roma, dove per sfuggire ai fascisti lei e il marito uscivano di casa prima delle cinque di mattina, dall’Inghilterra del Somerset fino alla Repubblica Dominicana, la Domin non solo ha dovuto comprendere e vivere nuovi luoghi, ma anche nuove lingue, imparando a parlare inglese, italiano, latino e spagnolo, oltre al suo tedesco («ho cambiato lingua come altri cambiano i vestiti»). Il suo stesso cognome (Domin) è uno pseudonimo che nasce dal nome dell’ultima terra che l’ha accolta (Repubblica Dominicana).
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Solo nel 1954 potrà tornare in Germania iniziando la sua avventura letteraria per una "ri-legittimazione" della lirica, messa in crisi dalla convinzione che «le poesie non venivano più pubblicate perché non erano lette e non erano lette perché non venivano più pubblicate».
Ne Il coltello che ricorda la Domin rielabora gli eventi storico-sociali vissuti nella sua drammatica esperienza di perseguitata e transfuga, con giudizi e prospettive interpretative che rendono la sua poesia un mosaico attraverso cui leggere la sua vita e la sua esperienza nel mondo («pubblicare poesie all'epoca non era in questione. Scrivere era salvarsi»).
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Ciò che traspare in ogni lirica è il suo impegno civile, che esprime con una straordinaria potenza della parola: «cambiare la parola/ lo sguardo / creare la realtà / il sogno della realtà / l'incubo della realtà / la realtà / il suo nocciolo». Per lei la riflessione poetica si identifica con la persecuzione («sono colui che è crocifisso/le braccia spalancate...»), l'esilio, il peso della vita vissuta, la fuga dalla barbarie del nazismo («quelli che fuggono dal gigante non portano con sé null'altro che la fuga»), consapevole che il potere salvifico della poesia non sia «nel salvarsi l'anima ma nel salvarsi dall'autodistruzione».
Per Hilde Domin la poesia non è una merce, ma è «un allenamento per la verità»[1], una verità scomoda e terribile che sfida l'indifferenza e fa leva sull'umana solidarietà. Ne scriverà anche in Classificando i muri dove si riferisce alla tragedia di chi è senza documenti, di coloro che, nella loro ricerca di un posto dove poter sopravvivere, trovano «muri senza spiragli, muri di carne umana».
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Forse dovremo ricordare «come tutti perdiamo tutto/ perché perdere è così semplice...senza il coraggio di tenerci mano nella mano/ senza il coraggio di essere proprio qui/ diventiamo ogni giorno più poveri.» Questo è il messaggio della Domin e del suo libro Il coltello che ricorda. Ascoltiamolo, contestiamolo, ribaltiamo, ma non smettiamo di viverlo.
[1]Hans Magnus Enzensberger
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