Il cinico che sconvolse l’Olanda. “Le sere” di Gerard Reve
Il primo pensiero che si ha leggendo Le sere di Gerard Reve, è “questo mi ricorda tanto” seguito dal nome di uno scrittore celebre. Lo stesso è il secondo pensiero; lo stesso il terzo. Fra le pagine di questo romanzo si celano infatti molteplici anime: Marcel Proust, nell’ossessiva concentrazione sui dialoghi e i pensieri del protagonista, Zola per il focus sulla quotidianità delle classi meno agiate, Céline e Miller per la spregiudicatezza con cui la realtà viene percepita, o Flaubert, perché come Madame Bovary, questo è un “romanzo sul nulla”.
Non bisogna ingannarsi però, quanto si ha fra le mani è un unicum della letteratura mondiale, che, come le grandi opere, richiama tutto per poi non assomigliare a nulla. Bene lo avevano capito gli olandesi, che sin dalla sua prima uscita nel 1947 ne hanno colto la deflagrante novità, accogliendo il libro chi polemicamente, chi come rivoluzionario. Oggi (il libro è uscito il 27 giugno scorso nella traduzione di Fulvio Ferrari), grazie a Iperborea, anche il pubblico italiano potrà gustare quello che è considerato uno degli scritti cardine del Novecento neerlandese.
«Era ancora buio quando, la mattina presto del 22 dicembre 1946, nella nostra città, al primo piano della casa di Schilderskade 66, l’eroe di questa storia, Frits van Egters, si svegliò.»
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La storia racconta gli ultimi 10 giorni del 1946 di Frits van Egters, giovane che ha precocemente abbandonato gli studi e ora lavora come impiegato, con scarso entusiasmo. Il protagonista si muove sullo sfondo di un’Olanda che ancora fatica a risorgere dopo la seconda guerra mondiale, sia nei fatti che nello spirito. La piattezza generale così come la carenza di entusiasmo dei personaggi non sono riscattate dalla fine del conflitto e dagli svaghi che la vita offre, pochi a dire il vero: il fumo di una sigaretta, la musica classica che passa alla radio e il cinema – «il divertimento di questo secolo» – sempre gremito. L’attenzione dell’autore si concentra così sulla vita quotidiana, i pasti poveri ma tutt’altro che frugali, spia della ripresa economica, o sul rito della stufa, da tenersi sempre accesa nel freddo inverno dei Paesi Bassi.
All’autore non interessa però descrivere l’Olanda post-bellica, come ha sempre affermato negli ultimi cinquant’anni: il centro del romanzo viene a essere il protagonista Frits, chiaramente alter ego dell’autore. Il mondo è solo la scena teatrale su cui si muove, così come gli altri personaggi altro non sono che spalle utili a metterne in luce tutte le specificità.
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Risulta difficile così tratteggiare l’immagine di tale carattere in poche righe, se si considera che l’autore stesso ci ha impiegato oltre trecento pagine. Frits è un personaggio complesso, molto intelligente, cinico a tal punto dal cadere nel sadico e nel macabro, ma soprattutto un provocatore, come mostrano le sue osservazioni che costellano tutto il libro, come quella sul cancro («malattia bellissima» a suo dire), o quella secondo cui tutti gli anziani superati i sessant’anni dovrebbero essere uccisi (ricordando qui un altro grande scrittore, Adolfo Bioy Casares, e il suo Diario della guerra al maiale). Ama anche raccontare storie macabre senza un senso, ed è in preda a ossessioni, da quella per la calvizie (si guarda ogni sera meticolosamente allo specchio, controlla anche gli amici e il fratello, facendo loro notare se stanno perdendo i capelli in modo da entrare in discussioni eterne sulla calvizie, in cui sciorina le sue infinite conoscenze sull’argomento) a quella per il tempo che passa, per i giorni, le ore, i minuti “da sprecare” («Un fallimento», mormorò piano, «un totale fallimento. Com’è possibile? Un giorno del tutto sprecato. Alleluia.»).
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A trovare una cifra caratteristica di un tale personaggio, questa deve essere sicuramente l’ambiguità, a tutti i livelli. Mai si capisce cosa Frits pensi su un dato argomento, se quanto dica lo dica per infastidire o ci creda davvero, ma più in generale ancora non si capisce cosa provi: sembra non curarsi per nulla della vita e delle opinioni altrui (come quando, alla madre che lo accusa di essere pazzo, risponde impassibile: «le apparenze sono contro di me, ma hai torto») e al contempo vive momenti di estremo disagio legato al mondo che lo circonda, quasi colpito da estreme punte di sensibilità, che diluisce però nell’estrema lucidità con cui si scherma dal reale.
«Malissimo», rispose Frits allegramente, «malissimo, Viktor. Diciamo le cose come stanno. Se va male, diciamo che va male.»
«C’è tanta sofferenza», disse Frits, «questo è certo.»
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Sempre a muoversi per la città in bicicletta o a piedi, il protagonista de Le sere è il flaneur più cinico che il Novecento ci abbia reso, simbolo dell’uomo senza centro, un inquieto che vaga tutte le sere fra le case degli amici perché non ama stare in casa, ma che una volta con gli amici è assalito da ansie sociali e da un horror vacui che lo obbligano a riempire il vuoto con storielle inutili e chiacchiere sterili («Dobbiamo continuare a parlare», pensò, «la conversazione non deve mai spegnersi», è fra i sintagmi che spesso ritornano).
Il tempo passa allora, una mattina, un giorno intero, 10 giorni, una vita. Senza aver compiuto nulla, senza avere mai vissuto, nella più totale apatia. «Non sto vivendo, sto solo uccidendo il tempo», cantavano i Radiohead, ennesimo spettro che sorge dietro le righe di questo controverso capolavoro.
Per la prima foto, copyright: Rafael Lodos.
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